INTENZIONE
PARADOSSA
L'intenzione paradossa
e la dereflessione sono due tecniche sviluppate nell'ambito della
struttura della logoterapia (Frankl, 1938, 1955, 1958; Polak, 1949;
Weisskopf-Joelson, 1955). La logoterapia è generalmente classificata
nella categoria della psicologia umanistica (Buhler e Allen, 1972),
oppure identificata con la psichiatria fenomenologica (Spiegelberg,
1972) o con quella esistenzialista (Allport, 1959; Lyons, 1961;
Pervin, 1960). Numerosi autori, tuttavia, sostengono che la
logoterapia è soltanto uno di questi sistemi che hanno avuto
successo nello sviluppare delle tecniche psicoterapeutiche nel senso
vero e proprio della parola (Leslie, 1965; Kaczanowski, 1965, 1967;
Tweedie, 1961; Ungersma, 1961). Le tecniche alle quali essi si
riferiscono sono quelle da me chiamate « intenzione paradossa »
(Frankl, 1947, 1955) e « dereflessione » (Frankl, 1947, 1955).
Io ho usato
l'intenzione paradossa fin dal 1929, anche se non ne ho pubblicato
una formale descrizione fino al 1939. Dopo di allora essa fu
elaborata in una metodologia (Frankl, 1953) e incorporata nel sistema
della logoterapia (Frankl, 1956). Da allora la crescente letteratura
sull'intenzione paradossa ha dimostrato che la tecnica costituiva
un'efficace terapia in casi di condizioni ossessivo-compul-sive e
fobiche (Gerz, 1962; Kaczanowski, 1965; Kocourek, Niebauer e Polak,
1959; Lehembre, 1964; Medlicott, 1969; Muller-Hegemann, 1963; Victor
e Krug, 1967; Weisskopf-Joelson, 1968), in cui spesso essa dimostra
di essere una cura a breve termine (Dilling e altri, 1971; Gerz,
1966; Henkel e altri, 1972; Jacobs, 1972; Marks, 1969, 1972; Solyom e
altri, 1972). Per capire come funziona l'intenzione paradossa,
prendiamo come punto di partenza il meccanismo chiamato di ansietà
anticipatoria: un dato sintomo evoca, da parte del paziente,
l'aspettativa piena di timore che una certa cosa )possa succedere. Il
timore, tuttavia, tende sempre a far accadere precisamente ciò che è
temuto e nello stesso modo l'ansietà anticipatoria è soggetta con
una certa probabilità a far scattare ciò che il paziente con tanto
timore si aspetta che succeda. Si viene cosí a formare un circolo
vizioso che si sostiene da sé: un sintomo evoca una fobia; la fobia
provoca il sintomo e il ritorno del sintomo rinforza la fobia.
1) il SINTOMO Evoca la
FOBIA che → rafforza il il SINTOMO che → RINFORZA la FOBIA
Un oggetto di timore è
il timore stesso: i nostri pazienti spesso parlano di « ansietà
dell'ansietà ». Da un esame più attento spesso risulta che questa
« paura della paura » viene provocata dalle apprensioni del
paziente riguardo agli effetti potenziali dei suoi attacchi di
ansietà: egli è spaventato all'idea che essi possano risolversi in
un suo collasso o svenimento, o anche in un attacco cardiaco o in un
colpo apoplettico. Ma, ahimè, la paura della paura aumenta la paura.
La più tipica reazione
alla « paura della paura » è costituita dalla « fuga dalla paura
» (Frankl, 1953): il paziente comincia ad evitare quelle situazioni
che di solito facevano insorgere la sua ansietà. In altre parole
fugge dalla sua paura. Questo è il punto di partenza di ogni nevrosi
d'ansia: « Le fobie sono dovute in parte allo sforzo di evitare la
situazione in cui si produce l'ansietà » (Frank.1, 1960). Teorici
dell'apprendimento e terapeuti del comportamento da allora hanno
confermato questa sco-perta. t opinione di Marks (1970), per esempio,
che « la fobia viene mantenuta dal meccanismo di fuga che riduce
l'ansietà ». Al contrario, « lo sviluppo di una fobia può essere
arrestato mettendo il paziente di fronte alla situazione che egli
comincia a temere » (Frankl, 1969). « La fuga dalla paura », come
reazione alla « paura del-la paura », costituisce il modello
fobico, il primo di tre modelli patogeni che vengono distinti in
logoterapia (Frankl, 1953). Il secondo è quello
ossessivo-compulsivo: mentre nei casi fobici il paziente rivela «
paura della paura », il nevrotico ossessivo-compulsivo, invece,
mostra di avere « paura di se stesso » e ciò perché, o è
afflitto dall'idea che potrebbe commettere un suicidio — o anche un
omicidio — oppure è spaventato al pensiero che le strane idee che
lo ossessionano possano essere l'indizio di una imminente, se non già
presente, psicosi. Come potrebbe sapere, lui, che la struttura di
tipo ossessivo-compulsivo lo immunizza, invece, contro una psicosi
vera e propria (Frankl, 1955)? Mentre la « fuga dalla paura » è
una caratteristica del modello fobico, il paziente
ossessivo-compulsivo è caratterizzato dalla sua « lotta contro
ossessioni e compulsioni ». Ma, ahimè, quanto più egli le
combatte, tanto più forti esse diventano: la pressione produce una
pressione contraria e questa, a sua volta, accresce la pressione. Di
nuovo ci troviamo di fronte ad un circolo vizioso.
PRESSIONE → PRODUCE
PRESSIONE CONTRARIA → che ACCRESCE la PRESSIONE
Com'è possibile,
allora, arrestare questo meccanismo di feed-back? E, tanto per
cominciare, come possiamo operare senza suscitare le singole paure
dei nostri pazienti? Bene, questo è precisamente quello che deve
fare l'intenzione paradossa, la quale può essere definita come e un
processo dal quale il paziente è incoraggiato a fare o a desiderare
le cose di cui egli ha paura (la prima cosa si applica a paziente
fobico, la seconda quello ossessivo-compulsivo). In questo modo noi
riusciamo a fermare il paziente fobico che fugge dalle sue paure e ad
arrestare il paziente ossessivo-compulsivo che lotta con le sue
ossessioni e compulsioni. In ogni caso, la paura patogena viene ora
sostituita da un desiderio para-dossale. Il circolo vizioso
dell'ansietà anticipatoria è ora scardinato. Per una casistica
illustrativa si rimanda il lettore alla letteratura in proposito
(Frankl, 1955, 1962, 1967, 1969; Gerz, 1962, 1966; Jacobs, 1972;
Kaczanowski, 1965; Medlicott, 1969; Solyom e altri, 1972; Victor e
Krug, 1967; Weisskopf-Joelson, 1968). In questa sede viene citato
soltanto il materiale non ancora pubblicato e, anzitutto, una
lettera, non da me sollecitata, che una volta ho ricevuto da un
lettore.
Ieri dovevo sostenere un esame e, mezz'ora prima, ho sco-perto che
ero letteralmente parali77nto dalla paura. Ho dato una scorsa ai miei
appunti e la memoria era del tutto vuota. Le cose che avevo studiato
tanto a lungo mi sembravano com-pletamente sconosciute e, preso dal
panico, ho pensato: « Non ricordo piú niente! Fallirò la prova! ».
Manco a dirlo, la mia paura cresceva di minuto in minuto e i miei
appunti mi appa-rivano sempre piú sconosciuti; ero tutto sudato e la
mia paura saliva ogni volta che ricontrollavo i miei appunti! Cinque
minu-ti prima dell'esame mi son reso conto che, se mi fossi sentito
cosí durante la prova, sarei stato sicuramente respinto e allora mi
è venuta in mente la sua intenzione paradossa. Ho detto a me stesso:
« Dal momento che in ogni caso sarò respinto, posso anche fare del
mio meglio per essere bocciato! Presenterò a questo professore una
prova cosí sbagliata che lui resterà interdetto per dei giorni. La
ridurrò tutta ad un ammasso di rifiuti; scriverò delle risposte che
non abbiano nulla a che fare con le domande. Gli farò vedere io come
uno studente può sbagliare veramente una prova! Sarà la prova piú
ridicola che egli dovrà correggere in tutta la sua carriera! ».
Con queste idee in
mente, quando è venuto il momento del-l'esame, in realtà, me la
ridevo dentro di me. Ebbene, che lo si creda o no, ogni domanda ha
avuto per me un significato chiaro e preciso. Ero rilassato, del
tutto a mio agio e, per quanto la cosa possa sembrare strana, mi
trovavo veramente in uno stato d'animo meraviglioso. Ho consegnato la
prova e ho meritato la massima votazione. P.S. L'intenzione paradossa
cura anche il singhiozzo. Se uno si sforza di continuare a
singhiozzare, non ci riesce!
Il brano che segue,
tratto da un'altra lettera, può darci un secondo esempio:
Ho quarant'anni e ho sofferto di nevrosi per almeno dieci anni. Sono
ricorso alle cure di uno psichiatra, ma non ci ho trovato il
miglioramento che mi aspettavo (ho fatto circa 18 mesi di cura). Ora,
nel 1968, al termine di una delle sue le-zioni, ho sentito che uno
dei presenti le domandava come curare la sua paura di volare. Prestai
ascolto a ogni cosa con la massima attenzione dnI momento che si
trattava anche della mia fobia. Seguendo la tecnica, che io suppongo
debba essere quella dell'intenzione paradossa, lei gli ingiunse di
lasciare che l'aereo esplodesse e precipitasse e, anzi, di osservarsi
già ridotto in pezzetti dentro di esso! Appena un mese dopo dovetti
compiere un viaggio in aereo a circa 2.500 miglia di distanza [oltre
4.000 Km.] e, come sempre, ero spaventato. Le mani erano sudate e il
cuore mi palpitava forte; allora mi tornò alla mente la ricetta che
lei aveva dato a quell'altro. Cosí immaginai che l'aereo esplodesse:
precipitavo tra le nubi a capo-fitto verso il suolo. Prima ancora di
completare il quadro della mia immaginazione, mi accorsi che,
improvvisamente, stavo riflettendo con tutta calma su alcuni affari
che allora stavo trattando. Mi sforzai piú volte ancora finché
riuscii a raffigurarmi vagamente il mio corpo ridotto ad un ammasso
sangui-nante sul terreno. Quando l'aereo atterrò, ero calmo e potei
ammirare con piacere il panorama a volo d'uccello. Dato che sono
freudiano di convinzione e per terapie seguite, mi è spesso accaduto
di stupirmi del livello tanto profondo della patologia di una
persona, troppo profondo perché l'intenzione paradossa ci possa
arrivare. Eppure ora io mi domando se non esistano in noi risorse
terapeutiche anche piú profonde della patologia, risorse
essenzialmente umane che possano essere sviluppate e suscitate
dall'intenzione paradossa.
Un altro caso, più compulsino che fobico, per sua natura, venne
riferito da Darrell Burnett, un
« consigliere » :
Un uomo venne al Centro d'igiene mentale della comunità, lamentando
una compulsione che lo costringeva, la sera prima di coricarsi, a
controllare ripetutamente la porta d'ingresso. Era arrivato al punto
di controllarla e ricontrollarla ben dieci volte nel giro di due
minuti. Disse che aveva cercato invano di discutere a fondo la cosa
con se stesso; non era approdato a nulla. Allora lo invitai a contare
attentamente quante volte egli riuscisse a controllare la porta nello
spazio di due minuti per cercare di stabilire un nuovo primato. Sulle
prime pensò che la cosa era stupida, ma tre giorni dopo la
compulsione era scomparsa.
Di
quest'altro caso, che viene qui riportato, sono debitore a Larry
Ramirez:
La tecnica, che piú di frequente mi ha aiutato e che io ho impiegato
con maggiore efficacia durante la mia attività di “consigliere”,
è quella dell'intenzione paradossa. Ad esempio, Linda T., una
graziosa studentessa del college, di 19 anni, aveva scritto sulla
scheda per l'appuntamento che aveva dei problemi a casa con i suoi
genitori. Appena ci fummo seduti, ebbi chiaramente la percezione che
era molto tesa. Infatti balbettava. La mia reazione naturale sarebbe
stata quella di dirle: «Si rilassi; va tutto bene». Oppure: «Basta
non prendersela!». Ma, sulla base della mia passata esperienza,
sapevo bene che invitarla a rilassarsi, sarebbe servito soltanto ad
aumentare la sua tensione. Perciò le risposi facendo proprio il
contrario: « Io voglio, Linda, che lei sia tesa quanto piú le è
possibile. Si comporti piú nervosamente che può ». « Va bene! »,
essa disse. « È facile per me essere nervosa ». Cominciò allora a
stringere rabbiosamente i pugni insieme e ad agi-tare le mani come se
fossero tremanti. « Si, va bene », io le dissi, « ma cerchi di
essere ancora piú nervosa ». Il lato comico della situazione
cominciò ad apparirle evidente e allora disse: « Sono realmente
nervosa, ma non posso esserlo di piú. E' strano, ma quanto piú mi
sforzo di essere tesa, tanto meno ci riesco ». Quando ricordo questo
caso, è evidente per me che è stato il senso dell'umorismo,
provocato dall'impiego del-l'intenzione ara ossa, c e ha aiutato
Linda ad accorgersi che lei, prima di tutto, era un essere umano e,
solo in seconda linea, una cliente e che io, in primo luogo, ero
anch'io un essere umano e, in secondo luogo, il suo « consigliere ».
Il senso del ridicolo ha messo in luce nel modo migliore la nostra
umanità.
Il ruolo dell'humour nella pratica dell'intenzione paradossa diventa
anche piú chiaro nel seguente brano, tratto da un lavoro di Mohammed
Sadiq:
La signora N., una donna di 48 anni diagnosticata come isterica,
aveva sempre il corpo in agitazione e tremante. Soffriva di attacchi
di tremito fino al punto che non riusciva a tenere in mano una tazza
di caffè senza rovesciarlo piú e piú volte. Non avrebbe potuto
scrivere né tenere in mano un libro in maniera abbastanza ferma per
leggerlo. Una mattina usci dalla sua stanza e venne a sedersi di
fronte a me dall'altra parte del tavolo allorché cominciò a tremare
e ad agitarsi. Non c'era li vicino nessun altro paziente, cosi decisi
di impiegare l'intenzione paradossa in un modo veramente umoristico:
Terapeuta: Le piacerebbe, signora, gareggiare con me in fatto di
agitazione?
Paziente (turbata): Che cosa?
T: Vediamo chi riesce ad agitarsi e a tremare più in fretta e piú a
lungo?
P: Come? Soffre anche lei di questi tremiti?
T: No, io non ne soffro, ma posso tremare, se voglio. [Cominciai ad
agitarmi tutto]. P: Per Bacco! Lei lo fa piú in fretta. [Cercando di
accelerare il tremito e sorridendo]. T: Piú in fretta. Andiamo,
signora N., piú in fretta!
P: Non posso. [Cominciava ad essere stanca]. Lasciamo perdere. Non ce
la faccio piú. [Si alzò, andò in sala da pranzo e si servi una
tazza di caffè. Bevve tutta la tazza senza versarne una goccia].
T: Era divertente, vero?
In seguito, ogni volta che la vedevo tremare solevo dirle: «Su,
signora N., facciamo una gara ». E lei mi rispondeva: «Ma certo.
Funziona davvero».
È veramente essenziale nell'applicare l'intenzione paradossa fare
ciò che hanno fatto Ramirez e Sadiq, vale a dire mobilitare e
utilizzare la capacità, esclusivamente umana, di cogliere il lato
comico delle cose. (Lazarus 1971) sottolinea il fatto che « un elemento, che integra il procedimento dell'intenzione paradossa
di Frankl, è costituito dall'evocazione deliberata del senso
dell'umorismo. Ad un paziente, il quale ha paura di sudare, viene
coman-dato di esibire al pubblico che sudorazione sia in realtà la
sua; gli viene ingiunto di sudare a fiotti, a zampilli, a torrenti,
cosí da inzuppare ogni cosa che venga in suo contatto ». Raskin e
Klein (1976) si domandano: « Quale maniera è piú efficace per
minimizzare un disturbo di quella di mostrare di approvarlo con una
strizzatina d'occhi? ». D'altra parte non dobbiamo dimenticare che
il senso dell'umorismo è esclusivamente umano. In fin dei conti,
nessun animale, tranne l'uomo, è capace di ridere. In particolare
l'umorismo deve essere considerato come una manifestazione di quella
peculiare capacità umana che in logoterapia è chiamata
auto-distanziamento (Frankl, 1966). Non è piú sostenibile il fatto
di deplorare, come fece Lorenz (1967), « che fino ad ora non abbiamo
preso abbastanza sul serio il fenomeno dell'humour ». Noi
logoterapeuti lo abbiamo fatto, oso dire, fin dal 1929. E in questo
contesto la cosa piú notevole è che recentemente anche i terapeuti
del comportamento sono arrivati a riconoscere l'importanza del senso
dell'umorismo. Per citare Hand e altri (1974) che « curavano i
pazienti, affetti da agorafobia cro-nica, esponendoli con successo
alla vita di gruppo in vivo», fu osservato che « uno stratagemma,
usato dai gruppi, che aveva un effetto impressionante, era costituito
dal ricorso al senso del comico (vedi l'intenzione paradossa di
Frankl, 1960). Questo espediente fu impiegato in modo spontaneo e
spesso aiutò a superare situazioni difficili. Quando tutto il gruppo
era spaventato, qualcuno soleva rompere il ghiaccio con uno scherzo
che veniva accolto con una risata di sollievo ». Come insegna la
logoterapia, la capacità di auto-distanziamento, insieme con
l'altra, la capacità di auto-trascen-denza (Frankl, 1959), è un
fenomeno, intrinsecamente e in modo ben preciso, umano e, come tale,
elude ogni tentativo riduzionista di farlo risalire a fenomeni
sub-umani. In virtú dell'auto-distanziamento l'uomo è capace di
scherzare su se stesso, di ridere di se stesso, di mettere in
ridi-colo i suoi stessi timori. In virtú della sua capacità di
auto-trascendenza, egli è capace di dimenticare se stesso, di
donarsi, di protendersi verso un significato da dare alla
sua esistenza. Certo, allora egli è anche esposto ad essere
frustrato in questa sua ricerca di un significato, ma anche ciò è
comprensibile solo a livello umano. Gli approcci,psi-chiatrici che si
mantengono fedeli o al « modello della macchina » o al « modello
del ratto », come li chiama Gordon Allport (1960), si lasciano
sfuggire le risorse terapeutiche. Dopo tutto, nessun computer è
capace di ridere di se stesso, né un topo è in grado di chiedersi
se la sua esistenza abbia o no un significato. Questa critica non
vuole negare l'importanza dei concetti della teoria
dell'apprendimento e degli approcci terapeutici di indirizzo
behaviorista. Rispetto alla terapia di questi ultimi, la logoterapia
si limita ad aggiungere un'altra dimensione — quella, cioè, che è
distintiva dell'uomo — e cosí viene a trovarsi nella posizione di
poter riunire tutte le risorse, che sono disponibili solo nella
dimensione umana. Visto in questa luce, lo psicologo norvegese Bjarne
Kvilhaug (1963) era giustificato nel sostenere che la logo-terapia
potrebbe realizzare ciò che egli chiamava l'« umanizzazione »
della terapia del comportamento. La ricerca di orientamento
behavioristico, a sua volta, ha rafforzato e convalidato sul piano
empirico molte cose della teoria e della pratica logoterapeutica.
Secondo il pensiero di Agras (1972) « l'intenzione paradossa espone
in modo efficace il paziente alla situazione che egli teme,
invitandolo deliberatamente a cercar di provocare le conseguenze, da
lui temute, del suo comportamento invece che sfuggire a quelle
situazioni. In questo modo a una donna agorafobica, che ha paura di
svenire se va in giro da sola, viene imposto di provare e di svenire.
Allora essa scopre che non può realmente svenire e diventa capace di
affrontare la sua situazione fobica ». Anche prima di questa
osservazione di Agras, Lazarus (1971) aveva sottolineato che «
allorché le persone favoriscono la manifestazione violenta della
loro ansietà anticipatoria, quasi sempre scoprono che salta fuori la
reazione contraria; le loro ansie peggiori scompaiono e quando il
metodo è impiegato parecchie volte, le loro fobie alla fine
spariscono ». Dilling, Rosefeldt, Kockott e Heyse (1971) sostengono
che i buoni risultati e qualche volta molto rapidi, ottenuti con
l'intenzione paradossa, si possono spiegare in linea con la teoria
dell'apprendimento. Lapinsohn (1971) tenta di dare un'interpretazione
dei risultati, ottenuti dall'intenzione paradossa, anche con
argomenti di carattere neurofisiologico, spiegazione questa che è
legittima al pari di quella tentata da Muller-Hegemann (1963), il cui
indirizzo è essenzialmente riflessologico. Questa è conforme ad
un'interpretazione della nevrosi da me presentata nel 1947:
Tutte le psicoterapie di orientamento psicoanalitico sono t
principalmente interessate a scoprire le condizioni originarie del
«riflesso condizionato », in base al quale è possibile capi-re
anche il tipo di nevrosi e, cioè, la situazione, interna ed esterna,
in cui un dato sintomo nevrotico è insorto la prima volta. Chi
scrive sostiene, tuttavia, che la nevrosi, ormai giunta a piena
maturazione, è causata non soltanto dalle condizioni originarie, ma
anche da condizionamenti secondari Questo rinforzo a sua volta, è
causato dal meccanismo di feedback, chiamato ansietà anticipatoria.
Perciò, se vogliamo condizionare ulteriormente un riflesso
condizionato, dobbiamo scardina-re il circolo vizioso formato
dall'ansietà anticipatoria ed è questo il vero lavoro compiuto
dalla nostra tecnica dell'intenzione paradossa.
I
terapeuti del comportamento non soltanto comincia-no a spiegare come
funziona l'intenzione paradossa, ma hanno anche cercato di provare
sperimentalmente che essa funziona realmente. Solyom e altri (1972)
hanno curato con molto successo dei cronici che avevano sofferto di
nevrosi ossessiva da quattro a venticinque anni. Uno era stato
sottoposto a psicoanalisi per quattro anni e mezzo; quattro erano
stati curati con l'elettroshock. Gli autori suddetti scelsero due
sintomi che fossero approssimativa-mente uguali, sia di importanza
per il paziente, sia di frequenza nel loro verificarsi, e a uno di
questi applicarono l'intenzione paradossa. L'altro, il « sintomo di
controllo » venne lasciato privo di cura. Benché il periodo di
trattamento fosse breve (sei settimane), il sintomo preso di mira
presentò un ritmo di miglioramento nella misura del 50%. « Alcuni
soggetti più tardi riferirono che dopo il periodo sperimentale
avevano applicato con successo l'intenzione paradossa ad altri
pensieri ossessivi ». Nello stesso tempo « non si verificò alcuna
sostituzione di sintomi ». Gli autori ne traggono la conclusione che
« l'intenzione paradossa, da sola o in combinazione con altre
tera-pie, può costituire un metodo relativamente rapido per alcuni
pazienti di nevrosi ossessiva ». In realtà la letteratura
sull'intenzione paradossa comprende Casi in cui questa tecnica
logoterapeutica era combinata con la modificazione del comportamento
e alcuni terapeuti del comportamento hanno dimostrato che gli effetti
terapeutici, ottenuti dal loro metodo di cura, pote-vano essere
rafforzati dall'aggiunta di tecniche logoterapeutiche, quali
l'intenzione paradossa. P. in linea con questo sano eclettismo che
Jacobs (1972) cita il caso della signora K. la quale per quindici
anni aveva sofferto di una grave forma di claustrofobia.
La fobia si estendeva al viaggiare in aereo, salire in ascensore,
montare in treno, in autobus, andare al cinema, al teatro, al
ristorante, al supermarket e in altri luoghi chiusi o spazi
limitati... Il problema era particolarmente grave dal mo-mento che la
signora K., che viveva in Inghilterra, era un'attrice e perciò era
spesso obbligata a volare all'estero per recitare in teatro o per la
televisione... La paziente si presentò per una cura otto giorni
prima di essere costretta a lasciare il Sudafrica, dove trascorreva
una vacanza, per fare ritorno in Inghilterra... Aveva paura di
sentirsi soffocare o di morire... Le fu insegnata allora la tecnica
di arresto del pensiero e le fu detto di usarla per bloccare
qualunque « pensiero catastrofico ». La tecnica dell'intenzione
paradossa di Frankl venne quindi applicata per aggredire
ulteriormente il suo modo di percepire le sue fobie e il genere di
risposte comportamentali che essa dava loro. Le venne detto, allora,
che ogni volta che cominciava a sentirsi ansiosa, in una qualunque
situazione fobica, invece di lottare per eliminare i sintomi e le
idee ossessive, doveva dire a se stessa: « So che in me non c'è
nessun male fisico; sono soltanto tesa e troppo ossigenata e voglio
realmente dimostrare a me stessa che le cose stanno cosi, la-sciando
che questi sintomi diventino più gravi che sia possibile ». Le fu
ingiunto di sforzarsi di soffocare o morire a proprio sul colpo » e
di cercare di esagerare i propri sintomi fisici. Le fu poi insegnata
una breve forma modificata della distensione progressiva di Jacobson.
Le fu ordinato di praticarla e di applicarla alle situazioni fobiche
per restare calma, ma le venne raccomandato particolarmente di non
cercare con troppa insistenza di raggiungere la distensione né di
lottare contro la tensione. Mentre era ancora in stato di relax, ebbe
inizio il processo di desensibilizzazione... Prima che la paziente
lasciasse lo studio le furono date istruzioni perché andasse 3
,mettersi in tutte le precedenti situazioni fobiche, come ascensori,
negozi affollati, cinema, ristoranti, ecc., dapprima con il marito e
poi da sola; le fu detto di mettersi in tali situazioni e di
comportarsi nel modo seguente: per rilassarsi doveva trat-tenere il
respiro, come le era stato insegnato, quasi si trovasse in stato di
superossigenazione e doveva dire a se stessa di non preoccuparsi
affatto, cioè: « Non me ne importa; non posso farci niente; succeda
pure tutto ciò che vuole; voglio dimostrare che non succede un bel
niente »... Essa si presentò due giorni dopo e riferì che aveva
eseguito a puntino le istruzioni ricevute, che era stata in un cinema
e in un ristorante, che aveva viaggiato innumerevoli volte da sola in
ascensore ed era stata in parecchi autobus e negozi affollati.
Quattro giorni più tardi, proprio alla vigilia della sua partenza in
aereo per l'Inghilterra, la paziente tornò. Essa aveva mantenuto i
progressi fatti e non avvertiva più alcuna ansietà anticipatoria di
nessun genere per il volo che si accingeva a fare. Essa riferì, e il
marito lo confermò, che era stata in ascensori, autobus, negozi
affollati, in un ristorante, in un cinema, ecc., senza alcuna ansietà
o paura... La paziente mi scrisse una lettera che ricevetti due
settimane dopo la sua partenza dal Sudafrica. Mi raccontava che non
aveva avuto assolutamente alcuna difficoltà durante il viaggio in
aereo verso casa e che era stata completamente libera dalle sue
fobie. A Londra, poi, aveva viaggiato persino nella metropolitana su
cui da tanti anni non era più salita. Rividi la signora K. e il
marito 15 mesi dopo il termine della cura. Entrambi mi confermarono
che essa era rimasta completamente libera dai sintomi che aveva
prima.
Jacobs descrive anche il trattamento di un altro pazien-te che era
più compulsivo che fobico. Il signor T. da dodici anni soffriva di
una grave nevrosi ossessivo-compulsiva. Varie cure, compresa la
terapia d'indirizzo psicoanalitico e PE.C.T., non erano riuscite a
dargli alcun aiuto.
Egli aveva sviluppato durante i sette anni precedenti una ossessione
e una paura di restare soffocato tale che trovava difficoltà a
mangiare o a bere, non appena diventava estrema-mente ansioso, e nel
cercare di sforzarsi ad ingoiare si era prodotto uno stato di bolo
isterico. Trovava difficile attraversare una strada perché riteneva
di poter restare soffocato quando fosse giunto a metà della
stessa... Gli fu allora prescritto di mettersi a fare deliberatamente
proprio le cose che gli facevano tanta paura, proprio quelle che le
sue ossessioni volevano impedirgli di fare, e ciò fino a quando
queste non lo avessero più disturbato... Al paziente vennero anche
date istruzioni per l'impiego della tecnica del relax ogni volta che
doveva mangiare, bere o attraversare una via. Usando la tecnica
dell'intenzione paradossa gli venne dato un bicchiere d'acqua da bere
e gli fu imposto di cercare di soffocarsi con la massima energia
possibile — cosa questa che egli era assolutamente incapace di
fare. Gli fu ordinato di cercare di soffocarsi almeno tre volte al
giorno... Alcune sedute successive furono dedicate alle tecniche
relative all'ulteriore riduzione dell'ansietà e all'impiego
dell'intenzione paradossa... Con la dodicesima seduta il paziente fu
in grado di riferire la completa scomparsa delle sue precedenti
ossessioni.
Ecco un'altra relazione che fa al caso nostro:
Vicki, una ragazza della scuola media superiore, venne a trovarmi nel
mio studio di « consigliere ». Gridava e diceva di avere come un
nodo in gola che le impediva di parlare, benché fosse stata una
delle migliori studentesse negli altri corsi che aveva frequentato.
Le chiesi il perché di quel nodo in gola o se aveva un'idea di come
le fosse venuto. Mi disse che ogni volta che si alzava a parlare in
aula, essa diventava via via più spaventata al punto da non poter
spiccicare una sillaba né resta-re in piedi. Aveva molti indizi di
ansietà anticipatoria. Allora le suggerii di fare il gioco dei
ruoli: lei, come oratrice, e io come pubblico. Per tre giorni usai
tecniche di modificazione del comportamento, con rinforzo positivo,
ogni volta che facemmo il gioco dei ruoli. Si era messa in testa che
se fosse riuscita a fare il suo primo discorso in classe, avrebbe
ricevuto uno speciale permesso di uscita dal campus, qualcosa, cioè,
che lei desiderava moltissimo. Il giorno successivo non riuscì a
fare in classe il suo discorso e tornò nel mio studio singhiozzando.
Visto che gli approcci di modifica del comportamento erano falliti,
provai con l'intenzione paradossa. Ingiunsi fermamente a Vicki di
mostrare, il giorno dopo, a tutta la classe quanto essa fosse piena
di paura; avrebbe dovuto gridare, piangere, tremare e sudare il più
possibile e le spiegai come. L'indomani, durante il suo discorso,
essa tentò di dimostrare quanto fosse piena di paura, ma non ci
riuscì. Invece essa fece un discorso che il suo professore
classificò con la massima votazione.
Anche Barbara W. Martin, « consigliere » di scuola me-dia
superiore, ha “impiegato in un primo momento le tecniche di
modificazione del comportamento e in seguito ha riscontrato che
quelle logoterapiche erano molto piú efficaci e piú utili
nell'operare con studenti di scuola media superiore”. Milton E.
Burglass, dell'Orleans Parish Prison Department of Rehabilitation,
organizzò anche un programma sperimentale di 72 ore di consulenza
terapeutica. Furono formati quattro gruppi di sedici soggetti
ciascuno. Un gruppo, scelto come gruppo di controllo, non avrebbe
ricevuto alcun trattamento; un gruppo fu assegnato a uno psichiatra
di formazione psicoanalitica freudiana; un gruppo fu affidato ad uno
psicologo, esperto in terapia del comportamento e dell'apprendimento
e l'ultimo a un terapeuta di formazione logoterapeutica. « Le
interviste, compiute dopo le sedute terapeutiche, rivelarono una
generale insoddisfazione per la terapia freudiana, un atteggiamento
piuttosto indifferente verso la tera-pia del comportamento e un
sentimento del tutto positivo riguardo alla logoterapia e ai vantaggi
da essa ricavati ». Ciò che è vero per gli approcci orientati
behavioristicamente, vale anche per quelli che si ispirano alle
teorie psicodinamiche. Alcuni psicoanalisti non solo usano
l'intenzione paradossa, ma cercano anche di spiegarne il successo in
termini freudiani (Gerz, 1966; Havens, 1968; Weisskopf-Joelson,
1955). Piú recentemente Harrington, in un suo lavoro inedito, ha
espresso la convinzione che “l'intenzione paradossa sia un
tentativo di dare coscientemente inizio ad una difesa automatica la
quale provoca quell'atteggiamento antifobico che è stato descritto
da Fenichel. In un modello psicoanalitico l'intenzione paradossa può
essere vista come quella che allevia i sintomi, utilizzando difese
che richiedono meno dispendio di energia psichica xispetto allo
stesso sintomo fobico od ossessivo-compulsivo. Ogni volta che
l'intenzione paradossa viene applicata con successo, vengono
gratificati gli impulsi dell'id, il super-io diventa un alleato
dell'io e rio stesso guadagna forza e diventa meno limitato. Ciò si
risolve in un'ansietà minore e in una diminuita formazione di
sintomi”. L'intenzione paradossa viene usata non soltanto dagli
psicoanalisti e dai terapeuti del comportamento, ma anche da
psichiatri i quali la combinano con la suggestione. Un esempio in
proposito fu riferito da Briggs (1970) ad un meeting della Royal
Society of Medicine:
Fui pregato di visitare un giovane balbuziente di Liverpool. Questi
desiderava occuparsi come insegnante, "ma la balbuzie e
l'insegnamento non vanno d'accordo. Il suo piú grande timore e
fastidio era costituito dall'imbarazzo che provava per la sua
balbuzie, tanto da soffrire angosce mortali ogni volta che doveva
dire qualcosa. Egli ricorreva di solito ad una specie di ripetizione
mentale di tutto ciò che si accingeva a dire e quindi cercava di
dirlo. In quel momento egli diventava terribilmente imbarazzato nel
tentativo di far ciò. Sembrava logico supporre che, se questo
giovane fosse riuscito a fare qualcosa che prima aveva avuto tanta
paura di fare, il suo problema sarebbe stato risolto. Mi ricordai che
poco tempo prima avevo letto un articolo di Viktor Frankl sulla
reazione del paradosso. Allora gli diedi questi consigli: « Questo
finesettimana se ne vada in giro e mostri alla gente che bravo
balbuziente è. E vedrà che fallirà questo scopo, proprio come
negli anni passati ha fallito nel tentativo di parlare
correntemente». La settimana dopo tornò ed era ovviamente esultante
perché il suo modo di parlare era notevolmente migliorato. Mi disse:
« Ciò che lei pensava, è accaduto davvero! Sono entrato in un bar
con alcuni amici e uno di loro mi ha detto: "Credevo che di
solito tu fossi balbuziente". E io: "Lo ero". Proprio
così ». E' stato un vero successo, ma non pretendo di avere qualche
merito per questo caso. Se il merito deve andare a qualcuno, che non
sia il paziente, ebbene allora esso va a Viktor Frankl.
Briggs aveva deliberatamente combinato l'intenzione paradossa con la
suggestione; d'altra parte, la suggestione non può essere in ogni
caso eliminata del tutto dalla terapia. Sarebbe tuttavia un errore
liquidare il successo terapeutico dell'intenzione paradossa
considerandolo semplicemente come effetto di suggestione. Il seguente
episodio, che riguarda un altro caso di balbuzie, potrebbe gettare un
po' di luce su questo problema. Si tratta di una lettera che una
volta mi mandò uno studente della Duquesne University:
Per diciassette anni ho balbettato in modo assai grave; a volte non
riuscivo assolutamente a parlare. Ho consultato molti terapeuti del
linguaggio, ma senza alcun esito. Uno dei miei insegnanti mi dette da
leggere, per un corso di lezioni, il suo libro Man's Search for
Meaning. Cosi lessi il libro e decisi di tentare da solo a provare
l'intenzione paradossa. Fín dalla prima volta che mi ci provai, la
cosa funzionò favolosamente -- niente balbuzie. Andai allora a
cercare altre situazioni in cui normalmente mi accadeva di balbettare
e applicai in esse l'intenzione paradossa che riusci felicemente a
mitigare la mia balbuzie in tutte quelle situazioni. Dopo di ciò ci
furono due situazioni nelle quali non feci ricorso all'intenzione
paradossa e subito la balbuzie riapparve. Fu questa, allora per me,
la prova definitiva che l'attenuazione del problema della mia
bal-buzie era dovuta all'uso effettivo dell'intenzione paradossa.
Il suo uso può essere efficace anche in casi in cui è implicata la
suggestione negativa, vale a dire quando il paziente non « crede »
in alcun modo all'efficacia della cura. Ecco, a titolo di esempio, il
seguente episodio riferito da Abraham George Pynummootil, un
assistente sociale:
Un giovane si presentò nel mio studio con un caso grave dí tic,
costituito da un continuo ammiccare. Strizzava gli occhi in maniera
rapida ogni volta che doveva parlare a qualcuno. Le persone allora
gli chiedevano perché mai facesse cosi e lui per questo cominciava a
mettersi in agitazione. Gli consigliai dì consultare uno
psicoanalista. Dopo molte ore di sedute egli tornò per dirmi che lo
psicoanalista non riusciva a trovare la _causa del suo disturbo e non
poteva quindi aiutarlo a risolverlo. Allora gli dissi: «La prossima
volta che parli con qualcuno, strizza gli occhi piú rapidamente che
puoi, con la maggiore velocità possibile, allo scopo di mostrare
deliberatamente con quanta rapidità tu sei capace di farlo». Mi
rispose che dovevo essere ammattito per suggerirgli una cosa simile;
riteneva, infatti, che in quel modo, invece di perderla, avrebbe
acquistato ancor piú l'abitudine di ammiccare. E schizzò via dal
mio studio. Per qualche settimana non lo vidi né ebbi noti-zie di
lui. Poi, un giorno, tornò. Questa volta era pieno di gioia e mi
raccontò quanto gli era accaduto. Poiché non era d'accordo con il
consiglio che gli avevo dato, non ci aveva pensato piú per qualche
giorno. Durante questo tempo il suo problema si era aggravato ed egli
era stato quasi sul punto di uscire di senno. Una sera, quando stava
per coricarsi, ripensò al mio suggerimento e si disse: « Ho tentato
tutto ciò crél potevo per uscire da questo guaio ed, ho fatto
fiasco. Perché non dovrei tentare l'unica cosa che mi ha consigliato
l'assi-stente sociale? ». E cosí il giorno dopo gli accadde che
proprio la prima persona che incontrò, fosse un suo intimo amico.
Gli riferí che intendeva strizzare gli occhi quanto piú gli fosse
possibile mentre parlava con lui. Ma con sua grande sorpresa non
riusci affatto a strizzare gli occhi mentre gli parlava. Da quel
momento tornò normale, come tutti gli altri, nell'abitudine di
ammiccare. Dopo alcune settimane non ci pensò piú del tutto.
Benedikt (1968) somministrò delle batterie di test a pazienti, ai
quali era stata applicata con successo l'intenzione paradossa, allo
scopo di valutare la loro sensibilità alla suggestione. Risultò che
erano anche meno sibili della media. Inoltre, molti pazienti avevano
cominciato a ricorrere all'intenzione paradossa con la sicura
convinzione che non servisse a nulla, ma alla fine avevano avuto
successo. Costoro, dunque, si comportavano cosi non perché erano
spinti da una suggestione, ma nonostante la loro suggestione. Da una
lettera, che mi è stata scritta da un altro dei miei lettori,
prendiamo la seguente relazione a titolo di esempio di quanto ho
detto:
Due giorni dopo aver letto Man's Search for Meaning, si presentò una
situazione che mi offriva l'opportunità di mettere alla prova la
logoterapia. Durante il primo incontro di un seminario su Martin
Buber, mi alzai per dire che io la pensavo in maniera diametralmente
opposta ai punti di vista che erano stati esposti fino a quel
momento. Nello stesso tempo in cui esprimevo le mie opinioni,
cominciai a sudar enormemente. Allorché divenni consapevole della
mia va sudorazione, provai un'ansietà anche maggiore per il fatto
che gli altri vedevano che io sudavo e ciò mi spingeva a sudare
ancora di piú. Quasi subito mi ricordai di aver letto il caso di un
medico che aveva consultato lei, dottor Frankl, a causa della sua
paura di sudare e pensai: « Qui io mi trovo in una situazione simile
». Dato che sono sempre scettico sui metodi di cura e
particolarmente sulla logoterapia, mi parve che in quel caso la
situazione fosse ideale per una verifica e per mettere cosí la
logoterapia alla prova. Ricordavo il consiglio che lei aveva dato a
quel medico e, quindi, decisi di mostrare deliberatamente a tutta
quella gente quanto io potessi sudare e, mentre continuavo ad esporre
le mie idee sull'argomento, mi andavo ripetendo mentalmente come una
canzone: « Di piú! 1Di più! Mostra a questa gente quanto riesci a
sudare; mostraglielo davvero! ». Nel giro di due o tre secondi dopo
l'applicazione dell'intenzione paradossa, risi dentro di me e potei
avvertire il sudore che cominciava ad asciugarsi sulla pelle. Ero
stupito e sorpreso di quel risultato perché non avevo mai creduto
che la logoterapia potesse funzionare. Funzionava, invece, e quanto
rapidamente! Allora, dentro di me, mi dissi: « Maledizione! Vuoi
vedere che il dottor Frankl ha davvero un po' di ragione!
Indipendentemente dal mio scetticismo la logoterapia ha funzionato
realmente nel mio caso ».
L'intenzione paradossa può essere impiegata con successo anche con i
bambini (Lehembre, 1964) persino in ambiente scolastico. Sono
debitore del pertinente esempio che segue a Pauline Furness, «
consigliere » e maestra elementare:
Libby (una bambina di 11 anni) fissava costantemente certi altri
bambini. Questi le fecero le loro rimostranze, la minacciarono anche,
ma tutto fu inutile. La signorina H., la maestra di Libby, insistette
perché Libby la smettesse di fissare gli altri bambini. La maestra
aveva provato ad impiegare le tecniche di modificazione del
comportamento: isolamento, punizione e raccomandazioni a tu per tu.
La situazione, invece, peggiorò. Allora la signorina H. fu molto
disponibile e insieme formulammo un piano d'azione. Il giorno dopo,
prima delle lezioni, essa chiamò Libby in aula e le disse: « Libby,
oggi voglio che tu guardi Ann e Richard e Lois. Uno dopo l'altro,
quindici minuti ciascuno, per tutto il giorno. Se te ne dimentichi,
te lo ricordo io. Niente compiti; soltanto fissare. Sarà un
divertimento, vero? ». Libby guardò la signorina H. con aria
interrogativa: « M... m... ma mi sembra sciocco, signorina H. ». «
No, assolutamente, Libby, dico proprio sul serio », replicò la
signorina H. « Sembra cosi stupido », insistette Libby sorridendo
un pochino. A questo punto la signorina H. usci in un ampio sorriso:
« Sembra ridicolo, vero? Vogliamo farne la prova? ». Libby arrossi.
Allora la signorina H. le spiegò che, se noi qualche volta ci
sforziamo di fare qualcosa che non vorremmo fare, ciò rompe
l'abitudine. L'aula si riempi e, quando tutti furono seduti, la
signorina H. dette a Libby il segnale segreto di cominciare. Libby
per un momento fissò la signorina H., quindi le si avvicinò e
implorò: « Non posso proprio... ». « Va bene », disse la
signorina H., « proveremo un po' piú tardi ». Ma alla fine di quel
giorno la signorina H. e Libby erano entrambe felici e contente per
l'incapacità di Libby di fissare i suoi compagni. Negli otto giorni
che seguirono, ogni mattina la signorina H. incominciava col porre in
disparte a Libby questa domanda: « Vogliamo, oggi, provar a fissare?
». La risposta fu sempre: « No! ». Libby non tornò piú a quel
suo modello di comportamento di fissare gli altri. Essa era fiera
della sua impresa e, piú tardi, nei termini dovuti chiese alla
signorina H. se si fosse accorta che quel suo modo di fissare era
cessato. La signorina H. le rispose di si e si congratulò con lei.
Nella seduta finale di consulenza, che tenemmo per Libby, la
signorina H. mi riferì che Libby ci aveva guadagnato in prestigio
presso i compagni di classe ed aveva assai migliorato il concetto di
sé. A me piace lavorare con l'intenzione paradossa perché presenta
un tema del tipo: « Non prendiamo la vita troppo sul serio.
Prendiamoci gioco dei nostri problemi. Se riusciamo a metterci in
disparte, dar loro una sbirciatina e riderne, essi svaniranno, puah!
». Io lo dico spesso ai bambini e loro afferrano lo spirito della
battuta.
E noi possiamo dire che essa ha afferrato lo spirito del-la nostra
tecnica che si fonda sulla capacità dell'uomo di staccarsi da sé.
Questi esempi, naturalmente, non pretendono di suggerire l'idea che
l'intenzione paradossa è efficace in ogni caso, o che sia facile
ottenerne gli effetti desiderati. Neanche l'intenzione paradossa, in
particolare, né la logoterapia, in generale, sono una panacea, e ciò
semplicemente perché le panacee non esistono nel campo della
psicoterapia. L'intenzione paradossa può, tuttavia, essere efficace
anche in casi gravi e cronici, sia nell'età avanzata che
nell'infanzia. A questo riguardo è stato pubblicato ampio materiale
da Kocourek, Niebauer e Polak (1959), Gerz (1962, 1966) e da Victor e
Krug (1967). Uno dei casi, riferiti da Niebauer, riguardava una donna
di 65 anni la quale da sessant'anni era affetta da una forma di
compulsione che la costringeva a lavarsi continuamente le mani; Gerz
curò una donna che accusava una nevrosi fobica di cui soffriva da 24
anni e il caso, curato da Victor e Krug, era quello di una nevrosi
compulsiva di un giocatore d'azzardo, la quale durava da venti anni.
Eppure anche in questi casi si riusci ad ottenere it successo. Certo,
in casi di questo genere it successo a accessibile a spese del totale
coinvolgimento personale del terapeuta. Ciò a dimostrato
dettagliatamente dalla relazione sul caso di un laureato in legge
ossessivo-compulsive che fu curato da Kocourek. La relazione fu
pubblicata da Friedrich M. Benedikt e costituiva parte della sua tesi
alla Facoltà di Medicina dell'Università di Monaco:
II caso riguarda un laureato in legge di 41 anni che venne tempo fa
ricoverato a causa della sua nevrosi ossessivo-compulsiva. Suo padre
aveva sofferto di una forma di bacteriofobia la quale poteva
giustificare l'ipotesi che la sua malattia avesse un carattere
ereditario 7. Da bambino, it paziente era solito aprire le porte con
it gomito per timore di possibili contaminazioni (in Europa le porte
hanno delle maniglie che devono essere spinte in giti e non girate
come i pomelli delle porte in America). Egli allora era
esageratamente preoccupato della sua pulizia ed evitava ogni contatto
con altri bambini perché essi potevano essere portatori di malattie.
Durante gli anni della scuola elementare e media, rimase isolato. Era
timido e i suoi compagni lo stuzzicavano perché era cosi riservato.
II paziente ricorda uno dei primi sintomi della sua malattia. Nel
1938, tornando una sera a casa, trovò una cartolina postale che si
sentì costretto a leggere ben sei volte. “Se non l'avessi letta
cosi, non avrei avuto pace”. Ogni sera si sentiva obbligato a
leggere dei libri fino a quando « tutto fosse in ordine ». Evitava
le banane che, siccome venivano da Paesi selvaggi, egli associava con
il fatto di dare ricetto ai batteri e specialmente a quelli della
lebbra. Nel 1939 cominciò a soffrire di una « mania del Venerdì
Santo D, cioè aveva paura perché avrebbe potuto mangiar carne senza
accorgersene o violare qualche altro precetto religioso. Nella scuola
media superiore, mentre veniva spiegata la Critica della ragion pura
di Kant, si abbandonò al pensiero che gli oggetti di questo mondo
potessero non essere reali. « Questa idea fu lt vero colpo decisivo
per me; tutto i1 resto non era stato che un preludio Cosi lamentava
it fatto che divenne 11 tema centrale della sua malattia. Il paziente
divenne preoccupato di compiere ogni cosa correttamente « al cento
per cento ». Egli era costantemente condizionato dai suoi scrupoli
di coscienza, che lo costringevano a seguire uno stretto rituale: «
Instaurai un rigido sistema formale », egli stesso affermo, « che
ancora devo osservare ». Si sentiva obbligato a fare un giro molto
ampio intorno ad ogni croce per timore di toccare qualcosa di sacro.
Poi cominciò a ripetere certe frasi, come:
« Non ho fatto niente di sbagliato », per sfuggire al suo senso di
colpa. Durante la guerra i suoi sintomi un po' recedettero. I
commilitoni lo molestavano per il fatto che non voleva andare con
loro nei bordelli. Sessualmente era rimasto molto ingenuo e ignorava
che il rapporto sessuale esige una erezione. Una ragazza gli disse
che c'era qualcosa in lui che non andava perché era privo di carica
virile. Alcune cure e l'ipnosi psicoanalitica si rivelarono utili nel
senso che egli riuscì ad avere una erezione. Questi trattamenti,
tuttavia, non fecero sparire i sintomi della sua nevrosi
ossessivo-compulsiva. Nel 1949 si sposò. II disturbo iniziale
relativo alla sua virilità scomparve dopo che ebbe rinnovato le
cure. In quel periodo concluse gli studi e si laureò all'Università.
Lavorò prima per la Polizia e poi per il Ministero delle Finanze, ma
perdette l'impiego perché era lento ed inefficiente. Il ricorso al
consulto di un medico non produsse miglioramento alcuno. Trovò un
posto in ferrovia. Durante questo periodo non permise che sua figlia
gli si avvicinasse perché era spaventato all'idea che avrebbe potuto
abusare sessualmente di lei. I sintomi della sua nevrosi
ossessivo-compulsiva crebbero a partire dal 1953. Nel 1956 lesse di
un'infermiera schizofrenica che si era strappata con una sgorbia i
bulbi oculari e cominciò, allora, ad aver paura di poter fare la
stessa cosa a se stesso o a bambini piccoli. « Quanto più lottavo
egli dirà, « contro questo pensiero, tanto più forte esso
diventava ». La cosa cominciò a farsi sempre più grave. La notte
si sentiva costretto a mettere sul tavolo tre arance altrimenti non
sarebbe riuscito a prender sonno. Cambiò di nuovo impiego. Nel 1960
fu curato da uno psicologo, ma le cure furono prive di esito. Nel
1961, sia i1 trattamento da parte di un medico omeopatico, che le
applicazioni di agopuntura, fallirono allo stesso modo. Nel 1962,
divenne un paziente di un ospedale psichiatrico, dove ricevette 45
shock di insulina dopo che gli era stata diagnosticata una
schizofrenia. La notte prima di essere dimesso ebbe un collasso e
venne sopraffatto dal pensiero che ogni cosa fosse irreale. « Da
quel giorno », dichiarò, questo tema centrale della mia malattia mi
ha sempre minacciato e mi sono trovato in un profondo affanno ».
Cure seguite alI'estero fallirono. Nello spazio di un anno cambiò
impiego venti volte, inclusi impieghi come guida turistica,
bigliettaio, aiuto-tipografo. Nel 1963 si sottopose alla terapia del
lavoro che egli considerò almeno parzialmente utile. Tuttavia, a
partire dal 1964, i sintomi della sua nevrosi ossessivo-compulsiva
divennero più forti ed egli fu incapace di lavorare. Il suo pensiero
più frequente, durante questo periodo, fu questo: « Potrei aver
strappato a qualcuno gli occhi con la sgorbia. Bisogna ch'io faccia
un ampio giro ogni volta che sorpasso qualcuno per la strada per
essere sicuro che non l'ho fatto ». La sua malattia divenne
insostenibile per la sua famiglia. Fu allora ricoverato al
Policlinico con la diagnosi di « grave nevrosi ossessivo-compulsiva
». La visita medica non rivelò alcun disturbo organico. Al paziente
venne prescritta una cura a base di narcotici allo scopo di calmarlo.
Ed ecco la tabella del trattamento psicoterapeutico seguito: 1°
giorno: il paziente è agitato, teso, continua a fissare la porta per
vedere se per caso non ha strappato a qualcuno gli occhi con la
sgorbia. Nel corridoio, fa un ampio giro intorno ad ogni bambino di
passaggio dalla vicina clinica otorinolaringoiatrica. Cammina
costantemente cori certi buffi movimenti da « cerimoniale » per
essere certo di non danneggiare nessuno. Continua a fissarsi le mani
nel timore di aver potuto strappare degli occhi così che l'umor
vitreo vi scorra sopra. 2° giorno: ha inizio una lunga e piuttosto
generale discussione che viene continuata per l'intero periodo di
cura. Il dott. Kocourek concentra i suoi sforzi sui sentimenti di
colpa del paziente, sui rapporti con la madre, con la moglie e con i
figli, sul suo continuo cambiamento d'impiego, sul suo pensiero
ossessivo che ogni cosa sia irreale e via di seguito. Poiché il
paziente ha espresso la sua paura di dover finire in un istituto o di
essere spinto ad aggredire un bambino ed essere, allora, considerato
come « pazzo », il dott. Kocourek gli spiega la differenza tra
un'azione compulsiva ed un pensiero ossessivo. Gli sottolinea il
fatto che, proprio a causa della sua malattia, egli è incapace di
fare del male a qualcuno. Infatti la sua malattia, poiché si tratta
di una nevrosi ossessivo-compulsiva, costituisce una garanzia che
egli non commetterà mai atti criminosi: il suo grande timore di
poter strappare ad altri gli occhi con la sgorbia è proprio la
ragione per la quale egli non potrà mai mandare ad effetto il suo
pensiero ossessivo. 4° giorno: il paziente sembra piú tranquillo e
rilassato. 5° giorno: il paziente non è sicuro, dice, di aver
capito tutto correttamente. Cento volte egli chiede assicurazioni che
le spiegazioni del dott. Kocourek sono valide « in qualsiasi luogo
del mondo intero e in qualsiasi momento ». Dal 6° al 10° giorno:
Le conversazioni con il paziente sono continuate. Egli rivolge molte
domande a cui viene sempre data una minuziosa risposta. Sembra meno
ansioso dei giorni precedenti. 11° giorno: viene spiegata al
paziente l'essenza dell'intenzione paradossa: egli non deve reprimere
i suoi pensieri, al contrario deve lasciarli, piuttosto, liberi di
prorompere in lui; essi non si risolveranno in quelle azioni di cui
ha tanta paura. Deve cercare di far fronte ai suoi pensieri con
ironia, ovvero di affrontarli a con umorismo ». Così facendo, egli
non avrà piú paura dei suoi pensieri ossessivi e, quando non li
combatte piú, essi svaniranno. Qualunque sia la cosa che egli tema
di fare, potrebbe progettare di farla effettivamente, dato che nella
sua qualità di nevrotico ossessivo-compulsivo egli può permettersi
di agire cosi. Il dott. Kocourek si assumerà personalmente la
responsabilità di qualunque cosa egli vorrà fare. 150 giorno: hanno
inizio gli esercizi attivi. Accompagnato dal dott. Kocourek, il
signor H. passeggia su e giú per l'ospedale praticando l'intenzione
paradossa. Dapprima gli viene ordinato di pronunciare certe frasi
come: “Benissimo, andiamo a strappare gli occhi con la sgorbia!
Prima strapperò gli occhi a tutti i pazienti qui nella stanza, poi
ai dottori e infine alle infermiere, anche a loro. E strappare un
occhio soltanto una volta non basta. Lo farò cinque volte per ogni
occhio. Quando avrò finito con queste persone qui, non ci resterà
nessuno qui se non dei poveri ciechi. L'umor vitreo scorrerà sul
pavimento. Avranno un bel da fare le donne per pulire qui. Benissimo,
avranno certo qualcosa da pulire”. Oppure un'altra serie di frasi:
« Ah, c'è un'infermiera; ecco una vittima adatta a farsi strappare
gli occhi. E al pianterreno c'è una quantità di visitatori; c'è un
mucchio da fare per me. Quale occasione per divellere gli occhi en
masse! E alcuni di loro sono persone importanti; vale dunque la
pena di lavorare su loro. Quando con loro avrò finito, non resterà
qui nient'altro che gente cieca e umor vitreo... ». Queste frasi
vengono ripetute con variazioni ed applicate a cia-scuno dei suoi
pensieri compulsivi. Durante questi esercizi è stato necessario che
il dott. Kocourek restasse personalmente coinvolto con il paziente
perché questi, nel dare inizio alla cosa, ha mostrato una grande
resistenza a mettere effettivamente in pratica l'intenzione
paradossa. Egli è spaventato all'idea di poter restare ancora
vittima di un pensiero ossessivo e per giunta non crede realmente nel
successo del metodo. Soltanto dopo che il dott. Kocourek gli ha
mostrato ciò che deve fare, il paziente ha finito per acconsentire a
cooperare. Ha ripetuto le frasi che gli venivano via via suggerite e
usava « un buffo modo di passeggiare » su e giú per l'ospedale, ma
che, come dopo ha ammesso, effettivamente gli piaceva. Dopo questi
esercizi preliminari il paziente viene rimandato nella sua stanza e
invitato a continuare nella pratica dell'intenzione paradossa. Nel
pomeriggio dello stesso giorno per la prima volta un timido sorriso
ha increspato le sue labbra ed egli ha osservato: « Per la prima
volta ora capisco che i miei pensieri erano effettiva-mente sciocchi
». 20° giorno: il paziente dichiara che ora è capace di applicare
il metodo senza alcun fastidio. Gli vengono date delle istruzioni per
praticare l'intenzione paradossa, da questo momento in poi, non
soltanto quando incontra qualcuno a cui deve pensare di aver
strappato gli occhi, ma anche per prevenire il suo pensiero ossessivo
pensandolo in anticipo. Durante i giorni se-guenti il paziente
pratica l'intenzione paradossa, da solo e anche con l'aiuto del dott.
Kocourek. La zona in cui egli la pratica, viene estesa ai bambini
della vicina clinica otorinolaringoiatrica. Il paziente viene
incoraggiato a recarsi con qualche scusa in quella clinica e a
proporsi paradossalmente:
« Benissimo, ora ci vado e faccio ciechi un po' di bambini; è
proprio ora che raggiunga la mia quota giornaliera. L'umor vitreo
resterà attaccato alle mie mani, ma non me ne importa niente,
specialmente, poi, del mio pensiero ossessivo ». Oppure: « Bisogna
che abbia un mucchio di pensieri ossessivi. Essi mi daranno
l'occasione di praticare l'intenzione paradossa, cosi sarò ben
preparato quando potrò tornare di nuovo a casa ». 25° giorno: il
paziente informa il dott. Kocourek che è difficile che abbia qualche
pensiero ossessivo dentro l'ospedale, né alla presenza di adulti né
a quella dei bambini. Di quando in quando si dimentica persino
dell'intenzione paradossa. Quando gli capita di avere un pensiero
ossessivo, non gli sembra che gli faccia piú paura. A questo punto,
anche il suo pensiero ossessivo che ogni cosa non è reale deve
essere aggredito con l'intenzione paradossa. Egli ripete frasi di
questo genere: « Bene, cosi io vivo in un mondo irreale! Questo
tavolo qui non è reale, i medici non sono neanche loro realmente
qui, tuttavia, anche cosí, questo "mondo irreale" non è
poi un brutto posto per viverci. In questo modo il mio pensiero su
tutto ciò dimostra che io realmente sono qui. Se io non fossi reale
non potrei pensare queste cose ». 280 giorno: al paziente viene
permesso per la prima volta dí lasciare l'ospedale. t spaventato e
non pensa che, anche fuori, potrà usare le sue frasi. Gli viene
consigliato di formulare i suoi pensieri in questa maniera: « Così,
ora me ne vado fuori e provoco un disastro nelle vie. Tanto per
cambiare andrò ad accecare la gente fuori dall'ospedale. Voglio
prenderle ad una ad una queste persone; nessuna mi scapperà ».
Lascia l'ospedale con grande apprensione. Al suo ritorno riferisce
contento che tutto è andato bene. Malgrado le sue apprensioni, è
stato capace di usare le frasi come le ha imparate. Diversa-mente
dalle sue esperienze nell'ambito dell'ospedale, in strada ha avuto
dei pensieri ossessivi, ma non lo hanno spaventato. Durante la sua
passeggiata di un'ora, soltanto due volte ho fatto un giro intorno a
qualcuno. In questi casi, aveva pensato troppo tardi di far ricorso
all'intenzione paradossa. 32° giorno: il paziente riferisce: “E'
difficile che abbia dei pensieri ossessivi, ma se mi capitano, non mi
danno fastidio”. 35° giorno: il paziente è rimandato a casa e
continua la cura tramite visite all'ospedale. Partecipa ad una
terapia di gruppo. Ecco la sua condizione al momento in cui viene
dimesso. Dentro l'ospedale egli non ha piú alcun pensiero ossessivo;
ne ha ancora alcuni durante le sue passeggiate per strada, ma ha
imparato a formulare le sue frasi per affrontarli. Comunque, questi
non costituiscono piú un ostacolo nella sua routine quotidiana.
Subito il paziente trova un lavoro che accetta. Durante le prime due
settimane il signor H. fa visita ogni giorno al dott. Kocourek per
riferirgli sul suo lavoro e ricevere consigli su come deve
comportarsi con se stesso. In seguito le visite vengono ridotte a tre
volte la settimana e piú tardi a quattro volte al mese, cioè una
volta la settimana. Partecipa alla terapia di gruppo soltanto in modo
irregolare. Il paziente si è ben adattato al suo impiego (il suo
capo è soddisfatto delle sue prestazioni). È capace di praticare
ogni giorno l'intenzione paradossa. Durante le ore di lavoro è
difficile che si accorga di qualche pensiero ossessivo; questi
affiorano di nuovo quando è eccessivamente stanco. Durante i cinque
mesi della cura, poco prima di Pasqua, manifesta una certa ansietà
per il Venerdí Santo. t spaventato all'idea di poter mangiare carne
in quel giorno senza accorgersene. Discute la situazione che lo
minaccia con il dott. Kocourek e si mettono d'accordo
sull'opportunità di pronunciare la seguente frase: « Adesso vado
ac1 ingoiare un piattone di zuppa con la carne dentro. Non posso
vederlo, ma essendo un nevrotico ossessivo, sodo sicuro che c'è. Per
me, mangiare questa zuppa non è peccato, ma terapia per guarire ».
La settimana dopo riferisce che durante là settimana santa non ha
avuto fastidi di sorta. Non ha avuto nemmeno bisogno dell'intenzione
paradossa. Al sesto mese di cura soffre di una ricaduta. Tornano i
pensieri ossessivi e di nuovo viene praticata l'intenzione paradossa.
Due settimane dopo il paziente ha ripreso l'autocontrollo ed è
libero da pensieri ossessivi. Egli ha di tanto in tanto delle
ricadute che, tuttavia, in poche sedute di terapia possono essere
superate e risolte. Viene consigliato al paziente di correre subito
dal dott. Kocourek allorché teme un ritorno del peggio. Durante il
settimo mese dichiara che i suoi pensieri ossessivi sono svaniti in
un soffio e si fanno vedere soltanto quando lui è sotto pressione o
fisica-mente esausto. Durante un fine-settimana accetta l'incarico di
fare da guida turistica, un'attività che gli piace. Dopo la gita —
la prima fuori di Vienna in tanti anni — riferisce che è stato per
lui un grande successo. « Posso ora dominare ogni situazione »,
dichiara,
« i miei pensieri non mi danno piú fastidio ». Alla fine del
settimo mese va con la famiglia in vacanza e può trascorrerla senza
alcun disturbo. Successivamente non si fa vivo con il dott. Kocourek
per tre mesi. Come poi spiegherà, si sentiva bene e non aveva
bisogno di nessun medico. Sentiva che non aveva alcuna necessità di
usare l'intenzione paradossa durante tutto quel tempo. Per tre mesi è
rimasto libero da pensieri ossessivi. « Ciò non era mai accaduto
prima », egli dichiara. Benché qualche volta gli capiti ancora di
avere idei pensieri ossessivi, non si sente piú spinto a fare
qualcosa per causa loro. Ha imparato anche a reagire tranquillamente
ai pensieri ossessivi che gli possono venire in mente. Non
interferiscono piú con la sua vita quotidiana. Il successo della
cura può essere misurato dal fatto che il signor H. è capace di
lavorare per quattordici interi mesi da quando è stato dimesso
dall'ospedale e non cambia piú impiego.
I risultati ottenuti dall'intenzione paradossa nelle nevrosi
ossessivo-compulsive, devono essere valutati con la considerazione
del fatto che in casi del genere « la prognosi è probabilmente
peggiore che non in qualsiasi altro disturbo nevrotico » (Solyom e
altri, 1972). Infatti: « Un recente compendio di 12 ricerche
longitudinali sulle nevrosi ossessive in sette diversi Paesi,
registra una percentuale di mancato miglioramento pari al 50% (Yates,
1970) ». Accurate ricerche sul trattamento behavioristico delle
nevrosi ossessive riscontrano che soltanto « il 46% dei casi
pubblicati erano classificati come migliorati » (Solyom e altri,
1972). Ultimo fatto, ma non meno importante: è stato osservato da
tempo che la tecnica dell'intenzione paradossa si presta alla cura
dell'insonnia. Come esempio di ciò vorrei citare un altro caso in
cui Sadiq usò la tecnica con una donna di 54 anni che aveva
raggiunto ormai l'assuefazione ai sonniferi. Una sera essa usci dalla
sua camera verso le 22 ed ecco il suo dialogo con Sadiq:
Paziente: Potrei avere un sonnifero? Terapeuta: Mi dispiace, ma non
glielo posso dare stasera perché li abbiamo esauriti e ci siamo
dimenticati di farne una nuova provvista nel pomeriggio.
P: E come faccio io, ora, a prender sonno?
T: Beh, suppongo che stasera lei debba tentare di prenderlo senza la
pillola. [Essa se ne andò in camera sua, restò per circa due ore
distesa sul letto e poi usci di nuovo].
P: Non riesco proprio a dormire.
T: Bene, perché allora non se ne va in camera, si corica e cerca di
non dormire? Vediamo se le riesce di restare sveglia tutta la notte.
P: Pensavo di essere matta, ma mi pare che lo sia anche lei.
T: è un divertimento fare i matti per un po', non è vero?
P: Ma lei veramente intende dire questo?
T: Questo, che cosa?
P: Di sforzarmi di non dormire.
T: Naturalmente. Intendo dire proprio questo. Provi a farlo. Vediamo
se le riesce di restare sveglia tutta la notte. Da parte mia
l'aiuterò dandole una voce ogni volta che faccio un giretto di
controllo. Che gliene pare?
P: Va bene.
« La mattina dopo », conclude Sadiq, « quando andai a svegliarla
per la colazione, essa era ancora addormentata ». Ciò che mi torna
alla mente, a questo proposito, è il seguente episodio, riferito da
Jay Haley (1963): « Durante una lezione sull'ipnosi, un giovane
disse a Milton H. Erick-son: "Lei sarà capace di ipnotizzare
gli altri, ma non riuscirebbe a ipnotizzare me". Il dottor
Erickson invitò il soggetto a salire sul palco dove faceva le sue
dimostrazioni; lo pregò di accomodarsi e quindi gli disse: "Voglio
che lei rimanga sveglio, completamente sveglio, sempre piú
completamente sveglio". Il soggetto cadde subito in trance
profonda ». Benché l'insonnia si arrenda all'intenzione paradossa,
il paziente, che ne soffre, può, tuttavia, esitare ad applicarla se
egli non è a conoscenza di un fatto ben provato, vale a dire che il
nostro fisico si procura da sé la quantità minima di sonno di cui
ha realmente bisogno. Per questa ragione il paziente non ha motivo di
preoccuparsi e può anche dare inizio alla tecnica dell'intenzione
paradossa, desiderando — tanto per cambiare — di passare la notte
in bianco. Medlicott (1969) usò l'intenzione paradossa per influire
non soltanto sul sonno del paziente, ma addirittura sui suoi sogni.
Egli applicò la tecnica specialmente in casi di fobia e la trovò
estremamente utile anche per uno psichiatra di indirizzo analitico, a
quanto lui stesso riferisce. La cosa piú degna di nota, però, è «
il tentativo di applicare il principio agli incubi secondo i criteri
che sembra-no seguiti dalle tribú africane e di cui è stata data
noti-zia qualche anno fa del Transcultural Psychiatry. La paziente ha
fatto eccellenti progressi in ospedale, dove era stata ricoverata a
causa di un grave stato di depressione nevrotica. Il fatto di
incoraggiarla a praticare l'intenzione paradossa ebbe il risultato di
renderla capace di tornare a casa, assumersi le proprie
responsabilità e affrontare ab-bastanza efficacemente le ansie di
cui soffriva a livello di coscienza. Tuttavia qualche tempo dopo essa
tornò, lamentando il fatto che il suo sonno era disturbato da
in-cubi in cui si vedeva perseguitata da persone che stava-no per
spararle o per pugnalarla. Anche il sonno del ma-rito era disturbato
dalle sue grida e lui doveva svegliarla. Alla donna vennero date
istruzioni precise perché si sforzasse di fare ancora tali sogni, ma
tenesse duro e si facesse pure sparare o pugnalare e il marito venne
invitato a non svegliarla in nessun caso se l'avesse sentita gridare.
La prima volta che la incontrai mi raccontò che non era piú stata
afflitta da alcun incubo, anche se suo marito si lamentava che lei lo
aveva svegliato con le risate che faceva dormendo ». Ci sono alcuni
esempi in cui l'intenzione paradossa è stata tentata anche con
manifestazioni psicotiche come le allucinazioni dell'udito. Quello
che segue è ancora un episodio citato dall'opera di Sadiq:
Frederick era un paziente di 24 anni, affetto da schizofrenia. La
sintomatologia prevalente era costituita da allucinazioni dell'udito.
Egli udiva delle voci che si prendevano gioco di lui e si sentiva
minacciato da esse. Si trovava in ospedale da dieci giorni allorché
gli parlai. Fred usci dalla sua stanza intorno alle due del mattino e
si lamentò che non riusciva a dormire a causa delle voci che non
volevano lasciarlo in pace. Paziente: Non posso dormire. Può darmi,
per favore, qual-che sonnifero? Terapeuta: Perché non può dormire?
C'è qualcosa che le dà noia? P: Si, sento queste voci che si
burlano di me e non riesco proprio a sbarazzarmi di loro. T:
D'accordo, ha parlato di queste voci al suo medico?
P: Lui mi ha invitato a non farci caso per niente. Ma io proprio non
ci riesco.
T: Ma si è sforzato almeno di non farci caso?
P: Ho tentato tutti questi giorni, ma sembra proprio che la cosa non
funzioni.
T: Le piacerebbe fare qualcosa di diverso?
P: Che intende dire?
T: Ecco: si stenda sul letto e presti tutta l'attenzione che può a
queste voci. Non le lasci mai cessare. Cerchi di ascoltarle sempre di
piú.
P: Lei mi sta prendendo in giro.
T: No, assolutamente. Perché non tentare di godersele queste
maledette voci.
P: Ma, dottore...
T: Perché non fa una prova?
Cosí decise di fare una prova. Dopo circa 45 minuti andai a
verificare la situazione e lo trovai che dormiva profondamente. La
mattina dopo gli chiesi come avesse dormito la notte passata. « Oh,
ho dormito bene », fu la sua risposta. Gli chiesi se aveva ascoltato
a lungo le sue voci ed egli mi disse: « Non so, credo di essermi
addormentato prima ».
Questo caso richiama un po' quello che Huber (1968), dopo aver
visitato un ospedale psichiatrico Zen, descrisse in termini di «
importanza data al vivere nella sofferenza piuttosto che lamentarsi,
analizzarla e cercare di evitarla ». Appunto a questo proposito egli
menziona il caso di una monaca buddista che era arrivata ad uno stato
di acuto turbamento:
Il sintomo piú grave era il suo terrore per i serpenti che vedeva
strisciare sopra il suo corpo. Medici e quindi psicologi e psichiatri
si erano recati a visitarla, ma non avevano potuto far nulla per lei.
Alla fine la visitò uno psichiatra Zen. Costui rimase nella stanza
della donna per soli cinque minuti. « Che guaio c'è? », le chiese.
« I serpenti strisciano sul mio corpo e mi terrorizzano ». Lo
psichiatra Zen pensò un poco e poi disse: « Ora devo andarmene, ma
tornerò a farle visita tra una settimana. Mentre non ci sono,
desidero che lei osservi i serpenti con molta attenzione, così che
quando torno lei possa essere in grado di descrivermi i loro
movimenti con assoluta precisione». Sette giorni dopo egli tornò e
trovò la monaca che attendeva alle mansioni che le erano state
affidate prima della sua malattia. La salutò e poi le chiese: « Ha
seguito le mie istruzioni? ». « Certamente », essa rispose. « Ho
concentrato i d tutta la mia attenzione sui serpenti. Ma, ahimè, non
li ho piú visti! Infatti, quando li osservavo con attenzione essi se
ne erano già andati ».
Se il principio dell'intenzione paradossa ha qualche valore, sarebbe
allora strano e assai improbabile che esso non sia stato già
scoperto tanto tempo fa e poi riscoperto cento volte. La logoterapia
doveva solo trasformarlo in una metodologia scientificamente
accettabile. Quanto alla metodologia, comunque, si dovrebbe osservare
che tra gli autori, che hanno applicato l'intenzione paradossa con
molto successo, e in seguito hanno fatto delle pubblicazioni sulla
loro esperienza con la tecnica, molti non han-no mai avuto alcuna
formale preparazione in logoterapia e non hanno neppure osservato
attentamente un logoterapeuta in azione, sia pure nell'ambito di
dimostrazioni in aula. Costoro hanno imparato unicamente dalla
letteratura esistente in questo settore. Che poi anche un profano
possa trarre vantaggio da un libro sulla logoterapia, in modo da
poter applicare da sé l'intenzione paradossa, è appunto ciò che si
può dedurre dal brano seguente, tratto da un'altra lettera, da me
non richiesta, che ho ricevuto:
Per cinque mesi, qui a Chicago, sono stata alla ricerca di
informazioni riguardanti l'intenzione paradossa. Ebbi notizia la
prima volta del suo metodo attraverso la lettura del suo libro The
Doctor and the Soul. Da allora ho fatto molte telefonate in diversi
posti. Ho fatto anche pubblicare un'inserzione (« ...amerebbe
sentire da qualcuno che ne abbia conoscenza o che abbia subito la
cura dell'intenzione paradossa per l'agorafobia... ») per una
settimana sul nostro Tribune di Chicago, ma non ho ricevuto alcuna
risposta. Ma perché sto ancora cercando di saperne di piú
sull'intenzione paradossa? Perché in questo periodo ho usato
l'intenzione paradossa da sola, seguendo come potevo gli esempi
riportati nel libro. Ho sofferto di agorafobia per 14 anni. A 24 anni
ho avuto un collasso nervoso, pur essendo in cura da uno psichiatra
freudiano per un problema diverso. Nel terzo anno interruppi la cura.
Non potevo piú lavorare e neppure andar fuori. Mia sorella dovette
sopportarmi come meglio poté. Dopo quattro anni di sforzi per
tirarmi su da sola, mi feci ricoverare in un ospedale di Stato — il
mio peso era sceso a 84 libbre [Kg. 38,1024] —. Sei setti-mane dopo
fui dimessa dall'ospedale « migliorata ». Parecchi mesi piú tardi
ebbi nuovamente un collasso. Non potevo assolutamente uscire di casa.
Questa volta per circa due anni andai da un ipnotizzatore, ma la cosa
non mi fu di troppo aiuto. Avevo terrori, tremiti e mi sentivo
debole. Temevo di cedere al terrore ed ero sempre presa dal panico.
Mi spaventano specialmente i grandi negozi, gli affollamenti, le
distanze, ecc. In quattordici anni non è cambiato nulla per me.
Alcune settimane fa ho cominciato a sentirmi nervosa e terrorizzata
quando mi tornò alla mente il suo metodo. Dissi a me stessa: «
Mostrerò a tutti nella strada quanto io possa spaventarmi e crollare
». Mi parve di essere piú calma. Mi recai in un piccolo negozio qui
vicino. Mentre attendevo di pagare i miei acquisti, mi sentii di
nuovo nervosa e cominciai a provare panico. Mi accorsi che le mani mi
sudavano. Non volendo arrendermi, proprio mentre il cassiere stava
quasi di fronte a me, ricorsi all'intenzione paradossa dicendo a me
stessa: « Mostrerò a quest'uomo quanto in realtà io possa sudare.
Lui ne sarà tanto sorpreso ». Non fu se non dopo che ebbi preso i
miei acquisti e mi trovai sulla via di casa, che m'accorsi che avevo
cessato di essere nervosa e spaventata. Due settimane fa incominciò
il carnevale nel nostro quartiere. Ero sempre cosi nervosa e
spaventata. Questa volta, prima di uscire di casa, mi dissi
mentalmente: « Voglio sforzarmi di aver paura e di svenire». Per la
prima volta andai dritta nel bel mezzo del carnevale dove c'era tanta
gente. Si, a volte i pensieri di terrore stavano per assalirmi e
cominciavo a sentire il panico che veniva su, ma ogni volta ho fatto
ricorso all'intenzione paradossa. Ho usato il suo metodo tutte le
volte che mi sono sentita a disagio. Ho resistito per tre ore e non
mi ero mai divertita tanto da anni. Mi sono sentita orgogliosa per la
prima volta dopo tanto tempo. Da quel momento ho fatto tante cose che
prima non riuscivo a fare. Certo, non sono guarita e neppure ho fatto
molto delle cose piú importanti che non posso fare. Ma so che c'è
qualcosa di diverso quando esco. Ci sono dei momenti in cui mi sento
come se non fossi mai stata malata. L'uso dell'intenzione paradossa
mi fa sentire piú sicura. Per la prima volta sento di poter disporre
di qualcosa con cui lottare contro i miei terrori. Non mi sento piú
cosi impotente contro di essi. Ho provato tanti metodi, ma nessuno mi
ha dato il rapido sollievo che mi ha dato il suo, anche se ancora non
sono le cose piú difficili quelle che riesco a fare. Io credo nel
suo metodo perché ne ho fatto la prova su me stessa, soltanto con
l'aiuto di un libro. Sinceramente... P.S. Ricorro all'intenzione
paradossa anche durante le notti d'insonnia ed essa mi fa dormire in
poco tempo. Pure alcuni miei amici l'adottano con successo.
Incidentalmente la paziente ha riferito anche « un esperimento »
che essa ha tentato:
Quando andavo a letto, immaginavo di vedermi in situazioni che mi
causano terrore. Quel che volevo fare era la pratica dell'intenzione
paradossa in casa, cosi sarei stata maggior-mente in grado di farlo
quando sono fuori. Bene, in passato (prima che usassi l'intenzione
paradossa) di solito cercavo di stare calma non appena affrontavo
queste fantasie, ma finivo per restare sconvolta vedendomi in quelle
situazioni. Ora, però, (quando mi sforzo di provare spavento con la
mia immaginazione, con l'intenzione paradossa ) non sono spaventata,
non provo terrore. Suppongo che, siccome voglio provare spavento, non
posso.
Un altro caso di auto-somministrazione dell'intenzione paradossa è
il seguente:
Giovedì mattina mi sono svegliata in uno stato di agitazione
pensando: « Non mi sento bene; che mi succederà? ». Stavo
diventando col passare del tempo sempre piú depressa. Sentivo che
stavo per mettermi a piangere. Ero cosi disperata. Ad un tratto mi
venne in mente di provare l'intenzione paradossa con questa mia
depressione. Mi dissi: « Voglio vedere fino a che punto posso essere
depressa ». E nel mio intimo pensai: « Voglio veramente diventare
depressa e cominciare a gridare. Voglio gridare che tutti mi sentano
». Nell'immaginazione cominciai a figurarmi grossi lacrimoni che mi
scorrevano lungo le guance e continuai a vedermi mentre piangevo
tanto che inondavo tutta la casa. A questo pensiero, a questa
immagine della mia fantasia, cominciai a ridere. Mi figurai mia
sorella che veniva a casa e diceva: « Esther, che diavolo hai
combinato? Come hai fatto a pianger tanto da inondare la casa? ».
Bene, dott. Frankl, al pensiero dell'intera scena cominciai a ridere
e a ridere fino al punto da spaventarmi del fatto di ridere tanto.
Allora dissi a me stessa: « Voglio ridere tanto e tanto forte che
tutti i vicini correranno a vedere chi è che ride cosi ». Ciò
parve calmarmi un po'. Quella era la mattina di giovedì; oggi è
sabato e la depressione non è ancora tornata. Suppongo che l'uso
dell'intenzione paradossa, in quel giorno, fosse come cercare di
guardarsi in uno specchio quando si sta piangendo — per qualche
motivo ciò fa smettere. Io non posso piangere mentre mi guardo in
uno specchio. P.S. Non scrivo questa lettera per un aiuto perché mi
sono aiutata da sola.
Che le persone possano « aiutarsi da sole » nell'usare l'intenzione
paradossa su se stesse, è concepibile soltanto se si comprende bene
che questa tecnica utilizza, ovvero mobilita, un meccanismo di lotta
che è saldamente incorporato dentro ogni essere umano. Questa è la
ragione per cui l'intenzione paradossa viene spesso applicata senza
saperlo. Ruven A.K. riferì il seguente esempio:
Non vedevo l'ora di prestare servizio nell'esercito australiano.
Trovavo un significato nella lotta per la sopravvivenza del mio
popolo. Perciò decisi di fare il soldato nel modo migliore che
avessi potuto. Mi arruolai volontario nelle truppe scelte
del-l'esercito, cioè nei paracadutisti. Così sarei stato esposto a
situazioni in cui la mia vita sarebbe stata in pericolo. Per esempio,
quando mi toccò di saltar fuori dall'apparecchio la prima volta. Io
avevo paura e tremavo letteralmente e il fatto di cercare di
nasconderlo mi fece tremare ancora di piú. Allora decisi di lasciare
che la mia paura fosse manifesta e di tremare quanto piú potevo e
dopo un po' l'agitazione e il tremito cessarono. Involontariamente
avevo usato l'intenzione paradossa e, con mia sorpresa, aveva
funzionato abbastanza.
In un caso opposto il principio, su cui è fondata l'intenzione
paradossa, venne usato non soltanto senza saperlo, ma addirittura
contro la volontà dell'interessato. La storia riguarda un cliente di
Uriel Meshoulam, un mio vecchio studente dell'Università di Harvard,
il quale me la raccontò cosi:
Il paziente era stato chiamato a prestare servizio nell'esercito
australiano ed era cosa certa che volesse evitare l'arruola-mento a
causa della sua balbuzie. Per farla breve, tentò tre volte di
dimostrare la sua difficoltà di pronuncia al medico militare, ma non
ci riuscí. Ironia del caso, fu riformato per ragioni di pressione
arteriosa troppo alta. L'esercito australiano probabilmente non ha
motivo di credere fino a questo momento che egli sia balbuziente.
Proprio come gli individui possono usare l'intenzione paradossa senza
accorgersene, cosí possono farlo interi gruppi di persone. Non solo
la psichiatria Zen, ma anche altre forme di «etnopsichiatria
sembrano applicare principi che successivamente sono stati
strutturati in sistema dalla logoterapia », com'è stato
sottolineato da Ochs (1968). Cosi, « il principio su cui si basa la
terapia degli Ifaluk è logoterapeutico » e lo sciamano della
psichiatria popolare messicano-americana, « il curandero, è un
logoterapeuta. Wallace e Vogelson mettono in risalto il fatto che
certi sistemi etnopsichiatrici usano spesso principi psicoterapeutici
che solo recentemente sono stati accettati dai sistemi psichiatrici
dell'Occidente. Sembra che la logoterapia costituisca un anello di
congiunzione tra i due... » (Ochs, 1969). Affermazioni simili sono
state fatte a proposito della psicoterapia morita, un altro metodo
orientale. Com'è stato sottolineato da Yamamoto (1968) e da Noonan
(1969), la terapia morita presenta « un numero notevole di
somiglianze con l'intenzione paradossa di Frankl » e, secondo
Reynolds (1976), i due metodi impiegano « tattiche terapeutiche del
tutto simili, scoperte separatamente le une dalle altre a migliaia di
chilometri di distanza ». Ma, come Noonan (1969) rileva, mentre la
terapia morita riflette la concezione del mondo propria degli
orientali, la logoterapia si fonda su quella che è caratteristica
dell'Occidente. Reynolds conclude: « Frankl rappresenta una cultura
in cui l'individualismo è un valore supremo e il razionalismo esige
la scoperta di mete personali », mentre invece « la terapia morita
rappresenta una cultura di orientamento collettivista nella cui
tradizione le mete personali sono state eliminate in quanto inutili
al gruppo ». Così la logoterapia è stata anticipata, anche se non
sistematicamente, da individui e da popoli da sempre. Nello stesso
modo, però, la logoterapia ha anticipato molto di ciò che viene ora
riscoperto, piú o meno metodicamente, dai terapeuti del
comportamento. Insomma, la logoterapia è stata anticipata dal
passato ed essa stessa ha « anticipato il futuro, il quale
nell'ultimo decennio è riuscito a rag-giungere la logoterapia »
(Steinzor, 1969). Per esempio, se-condo la logoterapia « la paura
della paura » nasce dalle apprensioni del paziente riguardo ai
potenziali effetti del-la sua paura (Frankl, 1953). Un esperimento
condotto da Valins e Ray (citati da Marks, 1969) conferma questa
ipotesi logoterapeutica: « A degli studenti con fobie per le serpi
fu fatto udire, con uno strumento di feedback amplificato, l'eco —
non quella vera — dei battiti del loro cuore nel momento in cui
osservavano lo strisciare delle serpi e vennero indotti a credere che
il ritmo dei loro battiti non fosse affatto aumentato mentre
guardavano le serpi. Questo procedimento determinò una significativa
diminuzione della loro fobia per le serpi ». La logoterapia insegna
anche che la « paura della paura » induce a « fuggire dalla paura
» e che ha inizio veramente una fobia allorché viene instaurata
questa struttura patogena di fuga. L'intenzione paradossa, allora,
impedisce tale fuga, determinando un'inversione completa
dell'intenzione del paziente di sfuggire alla sua paura (Frankl,
1953). Ciò si accorda perfettamente con la scoperta di Marks (1970)
che « la fobia può essere correttamente superata soltanto quando il
paziente affronta di nuovo la situazione fobica ». Lo stesso
principio viene posto in pratica anche dalle tecniche di orientamento
behavioristico come il flooding. Come Rachman, Hodgson e Marks (1971)
lo descrivono, durante il trattamento flooding il paziente « viene
incoraggiato e convinto ad entrare nella situazione che piú lo turba
». Analogamente nella cura di indirizzo behavioristico, chiamata «esposizione prolungata », la quale è stata esaminata a fondo in
un loro lavoro da Watson, Gaind e Marks (1971), il paziente viene «
incoraggiato ad avvicinarsi, quanto piú strettamente e piú
rapidamente gli è possibile, all'oggetto che egli teme e cosi la
fuga è scoraggiata ». Marks riconosce espressamente che il flooding
« ha certe somiglianze con la tecnica dell'intenzione para-dossa ».
Marks (1974) ha anche rilevato che la tecnica dell'intenzione
paradossa « assomiglia molto a quella ora chiamata modellamento »
(Bandura, 1968). Allo stesso modo somiglianze con l'intenzione
paradossa si possono scoprire nelle tecniche chiamate « provocazione
d'ansia », «esposizione in vivo », « implosione », « ansietà
indotta », « modificazione di aspettative » ed «esposizione
prolungata », vale a dire nelle tecniche sulle quali vennero
pubblicate delle testimonianze per la prima volta tra il 1967 e il
1971.
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