L'Intenzione Paradossa di Viktor Frankl

INTENZIONE PARADOSSA

L'intenzione paradossa e la dereflessione sono due tecniche sviluppate nell'ambito della struttura della logoterapia (Frankl, 1938, 1955, 1958; Polak, 1949; Weisskopf-Joelson, 1955). La logoterapia è generalmente classificata nella categoria della psicologia umanistica (Buhler e Allen, 1972), oppure identificata con la psichiatria fenomenologica (Spiegelberg, 1972) o con quella esistenzialista (Allport, 1959; Lyons, 1961; Pervin, 1960). Numerosi autori, tuttavia, sostengono che la logoterapia è soltanto uno di questi sistemi che hanno avuto successo nello sviluppare delle tecniche psicoterapeutiche nel senso vero e proprio della parola (Leslie, 1965; Kaczanowski, 1965, 1967; Tweedie, 1961; Ungersma, 1961). Le tecniche alle quali essi si riferiscono sono quelle da me chiamate « intenzione paradossa » (Frankl, 1947, 1955) e « dereflessione » (Frankl, 1947, 1955).
Io ho usato l'intenzione paradossa fin dal 1929, anche se non ne ho pubblicato una formale descrizione fino al 1939. Dopo di allora essa fu elaborata in una metodologia (Frankl, 1953) e incorporata nel sistema della logoterapia (Frankl, 1956). Da allora la crescente letteratura sull'intenzione paradossa ha dimostrato che la tecnica costituiva un'efficace terapia in casi di condizioni ossessivo-compul-sive e fobiche (Gerz, 1962; Kaczanowski, 1965; Kocourek, Niebauer e Polak, 1959; Lehembre, 1964; Medlicott, 1969; Muller-Hegemann, 1963; Victor e Krug, 1967; Weisskopf-Joelson, 1968), in cui spesso essa dimostra di essere una cura a breve termine (Dilling e altri, 1971; Gerz, 1966; Henkel e altri, 1972; Jacobs, 1972; Marks, 1969, 1972; Solyom e altri, 1972). Per capire come funziona l'intenzione paradossa, prendiamo come punto di partenza il meccanismo chiamato di ansietà anticipatoria: un dato sintomo evoca, da parte del paziente, l'aspettativa piena di timore che una certa cosa )possa succedere. Il timore, tuttavia, tende sempre a far accadere precisamente ciò che è temuto e nello stesso modo l'ansietà anticipatoria è soggetta con una certa probabilità a far scattare ciò che il paziente con tanto timore si aspetta che succeda. Si viene cosí a formare un circolo vizioso che si sostiene da sé: un sintomo evoca una fobia; la fobia provoca il sintomo e il ritorno del sintomo rinforza la fobia.

1) il SINTOMO Evoca la FOBIA che → rafforza il il SINTOMO che → RINFORZA la FOBIA

Un oggetto di timore è il timore stesso: i nostri pazienti spesso parlano di « ansietà dell'ansietà ». Da un esame più attento spesso risulta che questa « paura della paura » viene provocata dalle apprensioni del paziente riguardo agli effetti potenziali dei suoi attacchi di ansietà: egli è spaventato all'idea che essi possano risolversi in un suo collasso o svenimento, o anche in un attacco cardiaco o in un colpo apoplettico. Ma, ahimè, la paura della paura aumenta la paura.
La più tipica reazione alla « paura della paura » è costituita dalla « fuga dalla paura » (Frankl, 1953): il paziente comincia ad evitare quelle situazioni che di solito facevano insorgere la sua ansietà. In altre parole fugge dalla sua paura. Questo è il punto di partenza di ogni nevrosi d'ansia: « Le fobie sono dovute in parte allo sforzo di evitare la situazione in cui si produce l'ansietà » (Frank.1, 1960). Teorici dell'apprendimento e terapeuti del comportamento da allora hanno confermato questa sco-perta. t opinione di Marks (1970), per esempio, che « la fobia viene mantenuta dal meccanismo di fuga che riduce l'ansietà ». Al contrario, « lo sviluppo di una fobia può essere arrestato mettendo il paziente di fronte alla situazione che egli comincia a temere » (Frankl, 1969). « La fuga dalla paura », come reazione alla « paura del-la paura », costituisce il modello fobico, il primo di tre modelli patogeni che vengono distinti in logoterapia (Frankl, 1953). Il secondo è quello ossessivo-compulsivo: mentre nei casi fobici il paziente rivela « paura della paura », il nevrotico ossessivo-compulsivo, invece, mostra di avere « paura di se stesso » e ciò perché, o è afflitto dall'idea che potrebbe commettere un suicidio — o anche un omicidio — oppure è spaventato al pensiero che le strane idee che lo ossessionano possano essere l'indizio di una imminente, se non già presente, psicosi. Come potrebbe sapere, lui, che la struttura di tipo ossessivo-compulsivo lo immunizza, invece, contro una psicosi vera e propria (Frankl, 1955)? Mentre la « fuga dalla paura » è una caratteristica del modello fobico, il paziente ossessivo-compulsivo è caratterizzato dalla sua « lotta contro ossessioni e compulsioni ». Ma, ahimè, quanto più egli le combatte, tanto più forti esse diventano: la pressione produce una pressione contraria e questa, a sua volta, accresce la pressione. Di nuovo ci troviamo di fronte ad un circolo vizioso.

PRESSIONE → PRODUCE PRESSIONE CONTRARIA → che ACCRESCE la PRESSIONE

Com'è possibile, allora, arrestare questo meccanismo di feed-back? E, tanto per cominciare, come possiamo operare senza suscitare le singole paure dei nostri pazienti? Bene, questo è precisamente quello che deve fare l'intenzione paradossa, la quale può essere definita come e un processo dal quale il paziente è incoraggiato a fare o a desiderare le cose di cui egli ha paura (la prima cosa si applica a paziente fobico, la seconda quello ossessivo-compulsivo). In questo modo noi riusciamo a fermare il paziente fobico che fugge dalle sue paure e ad arrestare il paziente ossessivo-compulsivo che lotta con le sue ossessioni e compulsioni. In ogni caso, la paura patogena viene ora sostituita da un desiderio para-dossale. Il circolo vizioso dell'ansietà anticipatoria è ora scardinato. Per una casistica illustrativa si rimanda il lettore alla letteratura in proposito (Frankl, 1955, 1962, 1967, 1969; Gerz, 1962, 1966; Jacobs, 1972; Kaczanowski, 1965; Medlicott, 1969; Solyom e altri, 1972; Victor e Krug, 1967; Weisskopf-Joelson, 1968). In questa sede viene citato soltanto il materiale non ancora pubblicato e, anzitutto, una lettera, non da me sollecitata, che una volta ho ricevuto da un lettore.
Ieri dovevo sostenere un esame e, mezz'ora prima, ho sco-perto che ero letteralmente parali77nto dalla paura. Ho dato una scorsa ai miei appunti e la memoria era del tutto vuota. Le cose che avevo studiato tanto a lungo mi sembravano com-pletamente sconosciute e, preso dal panico, ho pensato: « Non ricordo piú niente! Fallirò la prova! ». Manco a dirlo, la mia paura cresceva di minuto in minuto e i miei appunti mi appa-rivano sempre piú sconosciuti; ero tutto sudato e la mia paura saliva ogni volta che ricontrollavo i miei appunti! Cinque minu-ti prima dell'esame mi son reso conto che, se mi fossi sentito cosí durante la prova, sarei stato sicuramente respinto e allora mi è venuta in mente la sua intenzione paradossa. Ho detto a me stesso: « Dal momento che in ogni caso sarò respinto, posso anche fare del mio meglio per essere bocciato! Presenterò a questo professore una prova cosí sbagliata che lui resterà interdetto per dei giorni. La ridurrò tutta ad un ammasso di rifiuti; scriverò delle risposte che non abbiano nulla a che fare con le domande. Gli farò vedere io come uno studente può sbagliare veramente una prova! Sarà la prova piú ridicola che egli dovrà correggere in tutta la sua carriera! ».

Con queste idee in mente, quando è venuto il momento del-l'esame, in realtà, me la ridevo dentro di me. Ebbene, che lo si creda o no, ogni domanda ha avuto per me un significato chiaro e preciso. Ero rilassato, del tutto a mio agio e, per quanto la cosa possa sembrare strana, mi trovavo veramente in uno stato d'animo meraviglioso. Ho consegnato la prova e ho meritato la massima votazione. P.S. L'intenzione paradossa cura anche il singhiozzo. Se uno si sforza di continuare a singhiozzare, non ci riesce!
Il brano che segue, tratto da un'altra lettera, può darci un secondo esempio:

Ho quarant'anni e ho sofferto di nevrosi per almeno dieci anni. Sono ricorso alle cure di uno psichiatra, ma non ci ho trovato il miglioramento che mi aspettavo (ho fatto circa 18 mesi di cura). Ora, nel 1968, al termine di una delle sue le-zioni, ho sentito che uno dei presenti le domandava come curare la sua paura di volare. Prestai ascolto a ogni cosa con la massima attenzione dnI momento che si trattava anche della mia fobia. Seguendo la tecnica, che io suppongo debba essere quella dell'intenzione paradossa, lei gli ingiunse di lasciare che l'aereo esplodesse e precipitasse e, anzi, di osservarsi già ridotto in pezzetti dentro di esso! Appena un mese dopo dovetti compiere un viaggio in aereo a circa 2.500 miglia di distanza [oltre 4.000 Km.] e, come sempre, ero spaventato. Le mani erano sudate e il cuore mi palpitava forte; allora mi tornò alla mente la ricetta che lei aveva dato a quell'altro. Cosí immaginai che l'aereo esplodesse: precipitavo tra le nubi a capo-fitto verso il suolo. Prima ancora di completare il quadro della mia immaginazione, mi accorsi che, improvvisamente, stavo riflettendo con tutta calma su alcuni affari che allora stavo trattando. Mi sforzai piú volte ancora finché riuscii a raffigurarmi vagamente il mio corpo ridotto ad un ammasso sangui-nante sul terreno. Quando l'aereo atterrò, ero calmo e potei ammirare con piacere il panorama a volo d'uccello. Dato che sono freudiano di convinzione e per terapie seguite, mi è spesso accaduto di stupirmi del livello tanto profondo della patologia di una persona, troppo profondo perché l'intenzione paradossa ci possa arrivare. Eppure ora io mi domando se non esistano in noi risorse terapeutiche anche piú profonde della patologia, risorse essenzialmente umane che possano essere sviluppate e suscitate dall'intenzione paradossa.

Un altro caso, più compulsino che fobico, per sua natura, venne riferito da Darrell Burnett, un
« consigliere » :

Un uomo venne al Centro d'igiene mentale della comunità, lamentando una compulsione che lo costringeva, la sera prima di coricarsi, a controllare ripetutamente la porta d'ingresso. Era arrivato al punto di controllarla e ricontrollarla ben dieci volte nel giro di due minuti. Disse che aveva cercato invano di discutere a fondo la cosa con se stesso; non era approdato a nulla. Allora lo invitai a contare attentamente quante volte egli riuscisse a controllare la porta nello spazio di due minuti per cercare di stabilire un nuovo primato. Sulle prime pensò che la cosa era stupida, ma tre giorni dopo la compulsione era scomparsa.

Di quest'altro caso, che viene qui riportato, sono debitore a Larry Ramirez:

La tecnica, che piú di frequente mi ha aiutato e che io ho impiegato con maggiore efficacia durante la mia attività di “consigliere”, è quella dell'intenzione paradossa. Ad esempio, Linda T., una graziosa studentessa del college, di 19 anni, aveva scritto sulla scheda per l'appuntamento che aveva dei problemi a casa con i suoi genitori. Appena ci fummo seduti, ebbi chiaramente la percezione che era molto tesa. Infatti balbettava. La mia reazione naturale sarebbe stata quella di dirle: «Si rilassi; va tutto bene». Oppure: «Basta non prendersela!». Ma, sulla base della mia passata esperienza, sapevo bene che invitarla a rilassarsi, sarebbe servito soltanto ad aumentare la sua tensione. Perciò le risposi facendo proprio il contrario: « Io voglio, Linda, che lei sia tesa quanto piú le è possibile. Si comporti piú nervosamente che può ». « Va bene! », essa disse. « È facile per me essere nervosa ». Cominciò allora a stringere rabbiosamente i pugni insieme e ad agi-tare le mani come se fossero tremanti. « Si, va bene », io le dissi, « ma cerchi di essere ancora piú nervosa ». Il lato comico della situazione cominciò ad apparirle evidente e allora disse: « Sono realmente nervosa, ma non posso esserlo di piú. E' strano, ma quanto piú mi sforzo di essere tesa, tanto meno ci riesco ». Quando ricordo questo caso, è evidente per me che è stato il senso dell'umorismo, provocato dall'impiego del-l'intenzione ara ossa, c e ha aiutato Linda ad accorgersi che lei, prima di tutto, era un essere umano e, solo in seconda linea, una cliente e che io, in primo luogo, ero anch'io un essere umano e, in secondo luogo, il suo « consigliere ». Il senso del ridicolo ha messo in luce nel modo migliore la nostra umanità.

Il ruolo dell'humour nella pratica dell'intenzione paradossa diventa anche piú chiaro nel seguente brano, tratto da un lavoro di Mohammed Sadiq:

La signora N., una donna di 48 anni diagnosticata come isterica, aveva sempre il corpo in agitazione e tremante. Soffriva di attacchi di tremito fino al punto che non riusciva a tenere in mano una tazza di caffè senza rovesciarlo piú e piú volte. Non avrebbe potuto scrivere né tenere in mano un libro in maniera abbastanza ferma per leggerlo. Una mattina usci dalla sua stanza e venne a sedersi di fronte a me dall'altra parte del tavolo allorché cominciò a tremare e ad agitarsi. Non c'era li vicino nessun altro paziente, cosi decisi di impiegare l'intenzione paradossa in un modo veramente umoristico:
Terapeuta: Le piacerebbe, signora, gareggiare con me in fatto di agitazione?
Paziente (turbata): Che cosa?
T: Vediamo chi riesce ad agitarsi e a tremare più in fretta e piú a lungo?
P: Come? Soffre anche lei di questi tremiti?
T: No, io non ne soffro, ma posso tremare, se voglio. [Cominciai ad agitarmi tutto]. P: Per Bacco! Lei lo fa piú in fretta. [Cercando di accelerare il tremito e sorridendo]. T: Piú in fretta. Andiamo, signora N., piú in fretta!
P: Non posso. [Cominciava ad essere stanca]. Lasciamo perdere. Non ce la faccio piú. [Si alzò, andò in sala da pranzo e si servi una tazza di caffè. Bevve tutta la tazza senza versarne una goccia].
T: Era divertente, vero?
In seguito, ogni volta che la vedevo tremare solevo dirle: «Su, signora N., facciamo una gara ». E lei mi rispondeva: «Ma certo. Funziona davvero».

È veramente essenziale nell'applicare l'intenzione paradossa fare ciò che hanno fatto Ramirez e Sadiq, vale a dire mobilitare e utilizzare la capacità, esclusivamente umana, di cogliere il lato comico delle cose. (Lazarus 1971) sottolinea il fatto che « un elemento, che integra il procedimento dell'intenzione paradossa di Frankl, è costituito dall'evocazione deliberata del senso dell'umorismo. Ad un paziente, il quale ha paura di sudare, viene coman-dato di esibire al pubblico che sudorazione sia in realtà la sua; gli viene ingiunto di sudare a fiotti, a zampilli, a torrenti, cosí da inzuppare ogni cosa che venga in suo contatto ». Raskin e Klein (1976) si domandano: « Quale maniera è piú efficace per minimizzare un disturbo di quella di mostrare di approvarlo con una strizzatina d'occhi? ». D'altra parte non dobbiamo dimenticare che il senso dell'umorismo è esclusivamente umano. In fin dei conti, nessun animale, tranne l'uomo, è capace di ridere. In particolare l'umorismo deve essere considerato come una manifestazione di quella peculiare capacità umana che in logoterapia è chiamata auto-distanziamento (Frankl, 1966). Non è piú sostenibile il fatto di deplorare, come fece Lorenz (1967), « che fino ad ora non abbiamo preso abbastanza sul serio il fenomeno dell'humour ». Noi logoterapeuti lo abbiamo fatto, oso dire, fin dal 1929. E in questo contesto la cosa piú notevole è che recentemente anche i terapeuti del comportamento sono arrivati a riconoscere l'importanza del senso dell'umorismo. Per citare Hand e altri (1974) che « curavano i pazienti, affetti da agorafobia cro-nica, esponendoli con successo alla vita di gruppo in vivo», fu osservato che « uno stratagemma, usato dai gruppi, che aveva un effetto impressionante, era costituito dal ricorso al senso del comico (vedi l'intenzione paradossa di Frankl, 1960). Questo espediente fu impiegato in modo spontaneo e spesso aiutò a superare situazioni difficili. Quando tutto il gruppo era spaventato, qualcuno soleva rompere il ghiaccio con uno scherzo che veniva accolto con una risata di sollievo ». Come insegna la logoterapia, la capacità di auto-distanziamento, insieme con l'altra, la capacità di auto-trascen-denza (Frankl, 1959), è un fenomeno, intrinsecamente e in modo ben preciso, umano e, come tale, elude ogni tentativo riduzionista di farlo risalire a fenomeni sub-umani. In virtú dell'auto-distanziamento l'uomo è capace di scherzare su se stesso, di ridere di se stesso, di mettere in ridi-colo i suoi stessi timori. In virtú della sua capacità di auto-trascendenza, egli è capace di dimenticare se stesso, di donarsi, di protendersi verso un significato da dare alla
sua esistenza. Certo, allora egli è anche esposto ad essere frustrato in questa sua ricerca di un significato, ma anche ciò è comprensibile solo a livello umano. Gli approcci,psi-chiatrici che si mantengono fedeli o al « modello della macchina » o al « modello del ratto », come li chiama Gordon Allport (1960), si lasciano sfuggire le risorse terapeutiche. Dopo tutto, nessun computer è capace di ridere di se stesso, né un topo è in grado di chiedersi se la sua esistenza abbia o no un significato. Questa critica non vuole negare l'importanza dei concetti della teoria dell'apprendimento e degli approcci terapeutici di indirizzo behaviorista. Rispetto alla terapia di questi ultimi, la logoterapia si limita ad aggiungere un'altra dimensione — quella, cioè, che è distintiva dell'uomo — e cosí viene a trovarsi nella posizione di poter riunire tutte le risorse, che sono disponibili solo nella dimensione umana. Visto in questa luce, lo psicologo norvegese Bjarne Kvilhaug (1963) era giustificato nel sostenere che la logo-terapia potrebbe realizzare ciò che egli chiamava l'« umanizzazione » della terapia del comportamento. La ricerca di orientamento behavioristico, a sua volta, ha rafforzato e convalidato sul piano empirico molte cose della teoria e della pratica logoterapeutica. Secondo il pensiero di Agras (1972) « l'intenzione paradossa espone in modo efficace il paziente alla situazione che egli teme, invitandolo deliberatamente a cercar di provocare le conseguenze, da lui temute, del suo comportamento invece che sfuggire a quelle situazioni. In questo modo a una donna agorafobica, che ha paura di svenire se va in giro da sola, viene imposto di provare e di svenire. Allora essa scopre che non può realmente svenire e diventa capace di affrontare la sua situazione fobica ». Anche prima di questa osservazione di Agras, Lazarus (1971) aveva sottolineato che « allorché le persone favoriscono la manifestazione violenta della loro ansietà anticipatoria, quasi sempre scoprono che salta fuori la reazione contraria; le loro ansie peggiori scompaiono e quando il metodo è impiegato parecchie volte, le loro fobie alla fine spariscono ». Dilling, Rosefeldt, Kockott e Heyse (1971) sostengono che i buoni risultati e qualche volta molto rapidi, ottenuti con l'intenzione paradossa, si possono spiegare in linea con la teoria dell'apprendimento. Lapinsohn (1971) tenta di dare un'interpretazione dei risultati, ottenuti dall'intenzione paradossa, anche con argomenti di carattere neurofisiologico, spiegazione questa che è legittima al pari di quella tentata da Muller-Hegemann (1963), il cui indirizzo è essenzialmente riflessologico. Questa è conforme ad un'interpretazione della nevrosi da me presentata nel 1947:

Tutte le psicoterapie di orientamento psicoanalitico sono t principalmente interessate a scoprire le condizioni originarie del «riflesso condizionato », in base al quale è possibile capi-re anche il tipo di nevrosi e, cioè, la situazione, interna ed esterna, in cui un dato sintomo nevrotico è insorto la prima volta. Chi scrive sostiene, tuttavia, che la nevrosi, ormai giunta a piena maturazione, è causata non soltanto dalle condizioni originarie, ma anche da condizionamenti secondari Questo rinforzo a sua volta, è causato dal meccanismo di feedback, chiamato ansietà anticipatoria. Perciò, se vogliamo condizionare ulteriormente un riflesso condizionato, dobbiamo scardina-re il circolo vizioso formato dall'ansietà anticipatoria ed è questo il vero lavoro compiuto dalla nostra tecnica dell'intenzione paradossa.

I terapeuti del comportamento non soltanto comincia-no a spiegare come funziona l'intenzione paradossa, ma hanno anche cercato di provare sperimentalmente che essa funziona realmente. Solyom e altri (1972) hanno curato con molto successo dei cronici che avevano sofferto di nevrosi ossessiva da quattro a venticinque anni. Uno era stato sottoposto a psicoanalisi per quattro anni e mezzo; quattro erano stati curati con l'elettroshock. Gli autori suddetti scelsero due sintomi che fossero approssimativa-mente uguali, sia di importanza per il paziente, sia di frequenza nel loro verificarsi, e a uno di questi applicarono l'intenzione paradossa. L'altro, il « sintomo di controllo » venne lasciato privo di cura. Benché il periodo di trattamento fosse breve (sei settimane), il sintomo preso di mira presentò un ritmo di miglioramento nella misura del 50%. « Alcuni soggetti più tardi riferirono che dopo il periodo sperimentale avevano applicato con successo l'intenzione paradossa ad altri pensieri ossessivi ». Nello stesso tempo « non si verificò alcuna sostituzione di sintomi ». Gli autori ne traggono la conclusione che « l'intenzione paradossa, da sola o in combinazione con altre tera-pie, può costituire un metodo relativamente rapido per alcuni pazienti di nevrosi ossessiva ». In realtà la letteratura sull'intenzione paradossa comprende Casi in cui questa tecnica logoterapeutica era combinata con la modificazione del comportamento e alcuni terapeuti del comportamento hanno dimostrato che gli effetti terapeutici, ottenuti dal loro metodo di cura, pote-vano essere rafforzati dall'aggiunta di tecniche logoterapeutiche, quali l'intenzione paradossa. P. in linea con questo sano eclettismo che Jacobs (1972) cita il caso della signora K. la quale per quindici anni aveva sofferto di una grave forma di claustrofobia.

La fobia si estendeva al viaggiare in aereo, salire in ascensore, montare in treno, in autobus, andare al cinema, al teatro, al ristorante, al supermarket e in altri luoghi chiusi o spazi limitati... Il problema era particolarmente grave dal mo-mento che la signora K., che viveva in Inghilterra, era un'attrice e perciò era spesso obbligata a volare all'estero per recitare in teatro o per la televisione... La paziente si presentò per una cura otto giorni prima di essere costretta a lasciare il Sudafrica, dove trascorreva una vacanza, per fare ritorno in Inghilterra... Aveva paura di sentirsi soffocare o di morire... Le fu insegnata allora la tecnica di arresto del pensiero e le fu detto di usarla per bloccare qualunque « pensiero catastrofico ». La tecnica dell'intenzione paradossa di Frankl venne quindi applicata per aggredire ulteriormente il suo modo di percepire le sue fobie e il genere di risposte comportamentali che essa dava loro. Le venne detto, allora, che ogni volta che cominciava a sentirsi ansiosa, in una qualunque situazione fobica, invece di lottare per eliminare i sintomi e le idee ossessive, doveva dire a se stessa: « So che in me non c'è nessun male fisico; sono soltanto tesa e troppo ossigenata e voglio realmente dimostrare a me stessa che le cose stanno cosi, la-sciando che questi sintomi diventino più gravi che sia possibile ». Le fu ingiunto di sforzarsi di soffocare o morire a proprio sul colpo » e di cercare di esagerare i propri sintomi fisici. Le fu poi insegnata una breve forma modificata della distensione progressiva di Jacobson. Le fu ordinato di praticarla e di applicarla alle situazioni fobiche per restare calma, ma le venne raccomandato particolarmente di non cercare con troppa insistenza di raggiungere la distensione né di lottare contro la tensione. Mentre era ancora in stato di relax, ebbe inizio il processo di desensibilizzazione... Prima che la paziente lasciasse lo studio le furono date istruzioni perché andasse 3 ,mettersi in tutte le precedenti situazioni fobiche, come ascensori, negozi affollati, cinema, ristoranti, ecc., dapprima con il marito e poi da sola; le fu detto di mettersi in tali situazioni e di comportarsi nel modo seguente: per rilassarsi doveva trat-tenere il respiro, come le era stato insegnato, quasi si trovasse in stato di superossigenazione e doveva dire a se stessa di non preoccuparsi affatto, cioè: « Non me ne importa; non posso farci niente; succeda pure tutto ciò che vuole; voglio dimostrare che non succede un bel niente »... Essa si presentò due giorni dopo e riferì che aveva eseguito a puntino le istruzioni ricevute, che era stata in un cinema e in un ristorante, che aveva viaggiato innumerevoli volte da sola in ascensore ed era stata in parecchi autobus e negozi affollati. Quattro giorni più tardi, proprio alla vigilia della sua partenza in aereo per l'Inghilterra, la paziente tornò. Essa aveva mantenuto i progressi fatti e non avvertiva più alcuna ansietà anticipatoria di nessun genere per il volo che si accingeva a fare. Essa riferì, e il marito lo confermò, che era stata in ascensori, autobus, negozi affollati, in un ristorante, in un cinema, ecc., senza alcuna ansietà o paura... La paziente mi scrisse una lettera che ricevetti due settimane dopo la sua partenza dal Sudafrica. Mi raccontava che non aveva avuto assolutamente alcuna difficoltà durante il viaggio in aereo verso casa e che era stata completamente libera dalle sue fobie. A Londra, poi, aveva viaggiato persino nella metropolitana su cui da tanti anni non era più salita. Rividi la signora K. e il marito 15 mesi dopo il termine della cura. Entrambi mi confermarono che essa era rimasta completamente libera dai sintomi che aveva prima.

Jacobs descrive anche il trattamento di un altro pazien-te che era più compulsivo che fobico. Il signor T. da dodici anni soffriva di una grave nevrosi ossessivo-compulsiva. Varie cure, compresa la terapia d'indirizzo psicoanalitico e PE.C.T., non erano riuscite a dargli alcun aiuto.

Egli aveva sviluppato durante i sette anni precedenti una ossessione e una paura di restare soffocato tale che trovava difficoltà a mangiare o a bere, non appena diventava estrema-mente ansioso, e nel cercare di sforzarsi ad ingoiare si era prodotto uno stato di bolo isterico. Trovava difficile attraversare una strada perché riteneva di poter restare soffocato quando fosse giunto a metà della stessa... Gli fu allora prescritto di mettersi a fare deliberatamente proprio le cose che gli facevano tanta paura, proprio quelle che le sue ossessioni volevano impedirgli di fare, e ciò fino a quando queste non lo avessero più disturbato... Al paziente vennero anche date istruzioni per l'impiego della tecnica del relax ogni volta che doveva mangiare, bere o attraversare una via. Usando la tecnica dell'intenzione paradossa gli venne dato un bicchiere d'acqua da bere e gli fu imposto di cercare di soffocarsi con la massima energia possibile — cosa questa che egli era assolutamente incapace di fare. Gli fu ordinato di cercare di soffocarsi almeno tre volte al giorno... Alcune sedute successive furono dedicate alle tecniche relative all'ulteriore riduzione dell'ansietà e all'impiego dell'intenzione paradossa... Con la dodicesima seduta il paziente fu in grado di riferire la completa scomparsa delle sue precedenti ossessioni.

Ecco un'altra relazione che fa al caso nostro:

Vicki, una ragazza della scuola media superiore, venne a trovarmi nel mio studio di « consigliere ». Gridava e diceva di avere come un nodo in gola che le impediva di parlare, benché fosse stata una delle migliori studentesse negli altri corsi che aveva frequentato. Le chiesi il perché di quel nodo in gola o se aveva un'idea di come le fosse venuto. Mi disse che ogni volta che si alzava a parlare in aula, essa diventava via via più spaventata al punto da non poter spiccicare una sillaba né resta-re in piedi. Aveva molti indizi di ansietà anticipatoria. Allora le suggerii di fare il gioco dei ruoli: lei, come oratrice, e io come pubblico. Per tre giorni usai tecniche di modificazione del comportamento, con rinforzo positivo, ogni volta che facemmo il gioco dei ruoli. Si era messa in testa che se fosse riuscita a fare il suo primo discorso in classe, avrebbe ricevuto uno speciale permesso di uscita dal campus, qualcosa, cioè, che lei desiderava moltissimo. Il giorno successivo non riuscì a fare in classe il suo discorso e tornò nel mio studio singhiozzando. Visto che gli approcci di modifica del comportamento erano falliti, provai con l'intenzione paradossa. Ingiunsi fermamente a Vicki di mostrare, il giorno dopo, a tutta la classe quanto essa fosse piena di paura; avrebbe dovuto gridare, piangere, tremare e sudare il più possibile e le spiegai come. L'indomani, durante il suo discorso, essa tentò di dimostrare quanto fosse piena di paura, ma non ci riuscì. Invece essa fece un discorso che il suo professore classificò con la massima votazione.

Anche Barbara W. Martin, « consigliere » di scuola me-dia superiore, ha “impiegato in un primo momento le tecniche di modificazione del comportamento e in seguito ha riscontrato che quelle logoterapiche erano molto piú efficaci e piú utili nell'operare con studenti di scuola media superiore”. Milton E. Burglass, dell'Orleans Parish Prison Department of Rehabilitation, organizzò anche un programma sperimentale di 72 ore di consulenza terapeutica. Furono formati quattro gruppi di sedici soggetti ciascuno. Un gruppo, scelto come gruppo di controllo, non avrebbe ricevuto alcun trattamento; un gruppo fu assegnato a uno psichiatra di formazione psicoanalitica freudiana; un gruppo fu affidato ad uno psicologo, esperto in terapia del comportamento e dell'apprendimento e l'ultimo a un terapeuta di formazione logoterapeutica. « Le interviste, compiute dopo le sedute terapeutiche, rivelarono una generale insoddisfazione per la terapia freudiana, un atteggiamento piuttosto indifferente verso la tera-pia del comportamento e un sentimento del tutto positivo riguardo alla logoterapia e ai vantaggi da essa ricavati ». Ciò che è vero per gli approcci orientati behavioristicamente, vale anche per quelli che si ispirano alle teorie psicodinamiche. Alcuni psicoanalisti non solo usano l'intenzione paradossa, ma cercano anche di spiegarne il successo in termini freudiani (Gerz, 1966; Havens, 1968; Weisskopf-Joelson, 1955). Piú recentemente Harrington, in un suo lavoro inedito, ha espresso la convinzione che “l'intenzione paradossa sia un tentativo di dare coscientemente inizio ad una difesa automatica la quale provoca quell'atteggiamento antifobico che è stato descritto da Fenichel. In un modello psicoanalitico l'intenzione paradossa può essere vista come quella che allevia i sintomi, utilizzando difese che richiedono meno dispendio di energia psichica xispetto allo stesso sintomo fobico od ossessivo-compulsivo. Ogni volta che l'intenzione paradossa viene applicata con successo, vengono gratificati gli impulsi dell'id, il super-io diventa un alleato dell'io e rio stesso guadagna forza e diventa meno limitato. Ciò si risolve in un'ansietà minore e in una diminuita formazione di sintomi”. L'intenzione paradossa viene usata non soltanto dagli psicoanalisti e dai terapeuti del comportamento, ma anche da psichiatri i quali la combinano con la suggestione. Un esempio in proposito fu riferito da Briggs (1970) ad un meeting della Royal Society of Medicine:


Fui pregato di visitare un giovane balbuziente di Liverpool. Questi desiderava occuparsi come insegnante, "ma la balbuzie e l'insegnamento non vanno d'accordo. Il suo piú grande timore e fastidio era costituito dall'imbarazzo che provava per la sua balbuzie, tanto da soffrire angosce mortali ogni volta che doveva dire qualcosa. Egli ricorreva di solito ad una specie di ripetizione mentale di tutto ciò che si accingeva a dire e quindi cercava di dirlo. In quel momento egli diventava terribilmente imbarazzato nel tentativo di far ciò. Sembrava logico supporre che, se questo giovane fosse riuscito a fare qualcosa che prima aveva avuto tanta paura di fare, il suo problema sarebbe stato risolto. Mi ricordai che poco tempo prima avevo letto un articolo di Viktor Frankl sulla reazione del paradosso. Allora gli diedi questi consigli: « Questo finesettimana se ne vada in giro e mostri alla gente che bravo balbuziente è. E vedrà che fallirà questo scopo, proprio come negli anni passati ha fallito nel tentativo di parlare correntemente». La settimana dopo tornò ed era ovviamente esultante perché il suo modo di parlare era notevolmente migliorato. Mi disse: « Ciò che lei pensava, è accaduto davvero! Sono entrato in un bar con alcuni amici e uno di loro mi ha detto: "Credevo che di solito tu fossi balbuziente". E io: "Lo ero". Proprio così ». E' stato un vero successo, ma non pretendo di avere qualche merito per questo caso. Se il merito deve andare a qualcuno, che non sia il paziente, ebbene allora esso va a Viktor Frankl.

Briggs aveva deliberatamente combinato l'intenzione paradossa con la suggestione; d'altra parte, la suggestione non può essere in ogni caso eliminata del tutto dalla terapia. Sarebbe tuttavia un errore liquidare il successo terapeutico dell'intenzione paradossa considerandolo semplicemente come effetto di suggestione. Il seguente episodio, che riguarda un altro caso di balbuzie, potrebbe gettare un po' di luce su questo problema. Si tratta di una lettera che una volta mi mandò uno studente della Duquesne University:

Per diciassette anni ho balbettato in modo assai grave; a volte non riuscivo assolutamente a parlare. Ho consultato molti terapeuti del linguaggio, ma senza alcun esito. Uno dei miei insegnanti mi dette da leggere, per un corso di lezioni, il suo libro Man's Search for Meaning. Cosi lessi il libro e decisi di tentare da solo a provare l'intenzione paradossa. Fín dalla prima volta che mi ci provai, la cosa funzionò favolosamente -- niente balbuzie. Andai allora a cercare altre situazioni in cui normalmente mi accadeva di balbettare e applicai in esse l'intenzione paradossa che riusci felicemente a mitigare la mia balbuzie in tutte quelle situazioni. Dopo di ciò ci furono due situazioni nelle quali non feci ricorso all'intenzione paradossa e subito la balbuzie riapparve. Fu questa, allora per me, la prova definitiva che l'attenuazione del problema della mia bal-buzie era dovuta all'uso effettivo dell'intenzione paradossa.

Il suo uso può essere efficace anche in casi in cui è implicata la suggestione negativa, vale a dire quando il paziente non « crede » in alcun modo all'efficacia della cura. Ecco, a titolo di esempio, il seguente episodio riferito da Abraham George Pynummootil, un assistente sociale:

Un giovane si presentò nel mio studio con un caso grave dí tic, costituito da un continuo ammiccare. Strizzava gli occhi in maniera rapida ogni volta che doveva parlare a qualcuno. Le persone allora gli chiedevano perché mai facesse cosi e lui per questo cominciava a mettersi in agitazione. Gli consigliai dì consultare uno psicoanalista. Dopo molte ore di sedute egli tornò per dirmi che lo psicoanalista non riusciva a trovare la _causa del suo disturbo e non poteva quindi aiutarlo a risolverlo. Allora gli dissi: «La prossima volta che parli con qualcuno, strizza gli occhi piú rapidamente che puoi, con la maggiore velocità possibile, allo scopo di mostrare deliberatamente con quanta rapidità tu sei capace di farlo». Mi rispose che dovevo essere ammattito per suggerirgli una cosa simile; riteneva, infatti, che in quel modo, invece di perderla, avrebbe acquistato ancor piú l'abitudine di ammiccare. E schizzò via dal mio studio. Per qualche settimana non lo vidi né ebbi noti-zie di lui. Poi, un giorno, tornò. Questa volta era pieno di gioia e mi raccontò quanto gli era accaduto. Poiché non era d'accordo con il consiglio che gli avevo dato, non ci aveva pensato piú per qualche giorno. Durante questo tempo il suo problema si era aggravato ed egli era stato quasi sul punto di uscire di senno. Una sera, quando stava per coricarsi, ripensò al mio suggerimento e si disse: « Ho tentato tutto ciò crél potevo per uscire da questo guaio ed, ho fatto fiasco. Perché non dovrei tentare l'unica cosa che mi ha consigliato l'assi-stente sociale? ». E cosí il giorno dopo gli accadde che proprio la prima persona che incontrò, fosse un suo intimo amico. Gli riferí che intendeva strizzare gli occhi quanto piú gli fosse possibile mentre parlava con lui. Ma con sua grande sorpresa non riusci affatto a strizzare gli occhi mentre gli parlava. Da quel momento tornò normale, come tutti gli altri, nell'abitudine di ammiccare. Dopo alcune settimane non ci pensò piú del tutto.

Benedikt (1968) somministrò delle batterie di test a pazienti, ai quali era stata applicata con successo l'intenzione paradossa, allo scopo di valutare la loro sensibilità alla suggestione. Risultò che erano anche meno sibili della media. Inoltre, molti pazienti avevano cominciato a ricorrere all'intenzione paradossa con la sicura convinzione che non servisse a nulla, ma alla fine avevano avuto successo. Costoro, dunque, si comportavano cosi non perché erano spinti da una suggestione, ma nonostante la loro suggestione. Da una lettera, che mi è stata scritta da un altro dei miei lettori, prendiamo la seguente relazione a titolo di esempio di quanto ho detto:

Due giorni dopo aver letto Man's Search for Meaning, si presentò una situazione che mi offriva l'opportunità di mettere alla prova la logoterapia. Durante il primo incontro di un seminario su Martin Buber, mi alzai per dire che io la pensavo in maniera diametralmente opposta ai punti di vista che erano stati esposti fino a quel momento. Nello stesso tempo in cui esprimevo le mie opinioni, cominciai a sudar enormemente. Allorché divenni consapevole della mia va sudorazione, provai un'ansietà anche maggiore per il fatto che gli altri vedevano che io sudavo e ciò mi spingeva a sudare ancora di piú. Quasi subito mi ricordai di aver letto il caso di un medico che aveva consultato lei, dottor Frankl, a causa della sua paura di sudare e pensai: « Qui io mi trovo in una situazione simile ». Dato che sono sempre scettico sui metodi di cura e particolarmente sulla logoterapia, mi parve che in quel caso la situazione fosse ideale per una verifica e per mettere cosí la logoterapia alla prova. Ricordavo il consiglio che lei aveva dato a quel medico e, quindi, decisi di mostrare deliberatamente a tutta quella gente quanto io potessi sudare e, mentre continuavo ad esporre le mie idee sull'argomento, mi andavo ripetendo mentalmente come una canzone: « Di piú! 1Di più! Mostra a questa gente quanto riesci a sudare; mostraglielo davvero! ». Nel giro di due o tre secondi dopo l'applicazione dell'intenzione paradossa, risi dentro di me e potei avvertire il sudore che cominciava ad asciugarsi sulla pelle. Ero stupito e sorpreso di quel risultato perché non avevo mai creduto che la logoterapia potesse funzionare. Funzionava, invece, e quanto rapidamente! Allora, dentro di me, mi dissi: « Maledizione! Vuoi vedere che il dottor Frankl ha davvero un po' di ragione! Indipendentemente dal mio scetticismo la logoterapia ha funzionato realmente nel mio caso ».

L'intenzione paradossa può essere impiegata con successo anche con i bambini (Lehembre, 1964) persino in ambiente scolastico. Sono debitore del pertinente esempio che segue a Pauline Furness, « consigliere » e maestra elementare:

Libby (una bambina di 11 anni) fissava costantemente certi altri bambini. Questi le fecero le loro rimostranze, la minacciarono anche, ma tutto fu inutile. La signorina H., la maestra di Libby, insistette perché Libby la smettesse di fissare gli altri bambini. La maestra aveva provato ad impiegare le tecniche di modificazione del comportamento: isolamento, punizione e raccomandazioni a tu per tu. La situazione, invece, peggiorò. Allora la signorina H. fu molto disponibile e insieme formulammo un piano d'azione. Il giorno dopo, prima delle lezioni, essa chiamò Libby in aula e le disse: « Libby, oggi voglio che tu guardi Ann e Richard e Lois. Uno dopo l'altro, quindici minuti ciascuno, per tutto il giorno. Se te ne dimentichi, te lo ricordo io. Niente compiti; soltanto fissare. Sarà un divertimento, vero? ». Libby guardò la signorina H. con aria interrogativa: « M... m... ma mi sembra sciocco, signorina H. ». « No, assolutamente, Libby, dico proprio sul serio », replicò la signorina H. « Sembra cosi stupido », insistette Libby sorridendo un pochino. A questo punto la signorina H. usci in un ampio sorriso: « Sembra ridicolo, vero? Vogliamo farne la prova? ». Libby arrossi. Allora la signorina H. le spiegò che, se noi qualche volta ci sforziamo di fare qualcosa che non vorremmo fare, ciò rompe l'abitudine. L'aula si riempi e, quando tutti furono seduti, la signorina H. dette a Libby il segnale segreto di cominciare. Libby per un momento fissò la signorina H., quindi le si avvicinò e implorò: « Non posso proprio... ». « Va bene », disse la signorina H., « proveremo un po' piú tardi ». Ma alla fine di quel giorno la signorina H. e Libby erano entrambe felici e contente per l'incapacità di Libby di fissare i suoi compagni. Negli otto giorni che seguirono, ogni mattina la signorina H. incominciava col porre in disparte a Libby questa domanda: « Vogliamo, oggi, provar a fissare? ». La risposta fu sempre: « No! ». Libby non tornò piú a quel suo modello di comportamento di fissare gli altri. Essa era fiera della sua impresa e, piú tardi, nei termini dovuti chiese alla signorina H. se si fosse accorta che quel suo modo di fissare era cessato. La signorina H. le rispose di si e si congratulò con lei. Nella seduta finale di consulenza, che tenemmo per Libby, la signorina H. mi riferì che Libby ci aveva guadagnato in prestigio presso i compagni di classe ed aveva assai migliorato il concetto di sé. A me piace lavorare con l'intenzione paradossa perché presenta un tema del tipo: « Non prendiamo la vita troppo sul serio. Prendiamoci gioco dei nostri problemi. Se riusciamo a metterci in disparte, dar loro una sbirciatina e riderne, essi svaniranno, puah! ». Io lo dico spesso ai bambini e loro afferrano lo spirito della battuta.

E noi possiamo dire che essa ha afferrato lo spirito del-la nostra tecnica che si fonda sulla capacità dell'uomo di staccarsi da sé. Questi esempi, naturalmente, non pretendono di suggerire l'idea che l'intenzione paradossa è efficace in ogni caso, o che sia facile ottenerne gli effetti desiderati. Neanche l'intenzione paradossa, in particolare, né la logoterapia, in generale, sono una panacea, e ciò semplicemente perché le panacee non esistono nel campo della psicoterapia. L'intenzione paradossa può, tuttavia, essere efficace anche in casi gravi e cronici, sia nell'età avanzata che nell'infanzia. A questo riguardo è stato pubblicato ampio materiale da Kocourek, Niebauer e Polak (1959), Gerz (1962, 1966) e da Victor e Krug (1967). Uno dei casi, riferiti da Niebauer, riguardava una donna di 65 anni la quale da sessant'anni era affetta da una forma di compulsione che la costringeva a lavarsi continuamente le mani; Gerz curò una donna che accusava una nevrosi fobica di cui soffriva da 24 anni e il caso, curato da Victor e Krug, era quello di una nevrosi compulsiva di un giocatore d'azzardo, la quale durava da venti anni. Eppure anche in questi casi si riusci ad ottenere it successo. Certo, in casi di questo genere it successo a accessibile a spese del totale coinvolgimento personale del terapeuta. Ciò a dimostrato dettagliatamente dalla relazione sul caso di un laureato in legge ossessivo-compulsive che fu curato da Kocourek. La relazione fu pubblicata da Friedrich M. Benedikt e costituiva parte della sua tesi alla Facoltà di Medicina dell'Università di Monaco:

II caso riguarda un laureato in legge di 41 anni che venne tempo fa ricoverato a causa della sua nevrosi ossessivo-compulsiva. Suo padre aveva sofferto di una forma di bacteriofobia la quale poteva giustificare l'ipotesi che la sua malattia avesse un carattere ereditario 7. Da bambino, it paziente era solito aprire le porte con it gomito per timore di possibili contaminazioni (in Europa le porte hanno delle maniglie che devono essere spinte in giti e non girate come i pomelli delle porte in America). Egli allora era esageratamente preoccupato della sua pulizia ed evitava ogni contatto con altri bambini perché essi potevano essere portatori di malattie. Durante gli anni della scuola elementare e media, rimase isolato. Era timido e i suoi compagni lo stuzzicavano perché era cosi riservato. II paziente ricorda uno dei primi sintomi della sua malattia. Nel 1938, tornando una sera a casa, trovò una cartolina postale che si sentì costretto a leggere ben sei volte. “Se non l'avessi letta cosi, non avrei avuto pace”. Ogni sera si sentiva obbligato a leggere dei libri fino a quando « tutto fosse in ordine ». Evitava le banane che, siccome venivano da Paesi selvaggi, egli associava con il fatto di dare ricetto ai batteri e specialmente a quelli della lebbra. Nel 1939 cominciò a soffrire di una « mania del Venerdì Santo D, cioè aveva paura perché avrebbe potuto mangiar carne senza accorgersene o violare qualche altro precetto religioso. Nella scuola media superiore, mentre veniva spiegata la Critica della ragion pura di Kant, si abbandonò al pensiero che gli oggetti di questo mondo potessero non essere reali. « Questa idea fu lt vero colpo decisivo per me; tutto i1 resto non era stato che un preludio Cosi lamentava it fatto che divenne 11 tema centrale della sua malattia. Il paziente divenne preoccupato di compiere ogni cosa correttamente « al cento per cento ». Egli era costantemente condizionato dai suoi scrupoli di coscienza, che lo costringevano a seguire uno stretto rituale: « Instaurai un rigido sistema formale », egli stesso affermo, « che ancora devo osservare ». Si sentiva obbligato a fare un giro molto ampio intorno ad ogni croce per timore di toccare qualcosa di sacro. Poi cominciò a ripetere certe frasi, come:
« Non ho fatto niente di sbagliato », per sfuggire al suo senso di colpa. Durante la guerra i suoi sintomi un po' recedettero. I commilitoni lo molestavano per il fatto che non voleva andare con loro nei bordelli. Sessualmente era rimasto molto ingenuo e ignorava che il rapporto sessuale esige una erezione. Una ragazza gli disse che c'era qualcosa in lui che non andava perché era privo di carica virile. Alcune cure e l'ipnosi psicoanalitica si rivelarono utili nel senso che egli riuscì ad avere una erezione. Questi trattamenti, tuttavia, non fecero sparire i sintomi della sua nevrosi ossessivo-compulsiva. Nel 1949 si sposò. II disturbo iniziale relativo alla sua virilità scomparve dopo che ebbe rinnovato le cure. In quel periodo concluse gli studi e si laureò all'Università. Lavorò prima per la Polizia e poi per il Ministero delle Finanze, ma perdette l'impiego perché era lento ed inefficiente. Il ricorso al consulto di un medico non produsse miglioramento alcuno. Trovò un posto in ferrovia. Durante questo periodo non permise che sua figlia gli si avvicinasse perché era spaventato all'idea che avrebbe potuto abusare sessualmente di lei. I sintomi della sua nevrosi ossessivo-compulsiva crebbero a partire dal 1953. Nel 1956 lesse di un'infermiera schizofrenica che si era strappata con una sgorbia i bulbi oculari e cominciò, allora, ad aver paura di poter fare la stessa cosa a se stesso o a bambini piccoli. « Quanto più lottavo egli dirà, « contro questo pensiero, tanto più forte esso diventava ». La cosa cominciò a farsi sempre più grave. La notte si sentiva costretto a mettere sul tavolo tre arance altrimenti non sarebbe riuscito a prender sonno. Cambiò di nuovo impiego. Nel 1960 fu curato da uno psicologo, ma le cure furono prive di esito. Nel 1961, sia i1 trattamento da parte di un medico omeopatico, che le applicazioni di agopuntura, fallirono allo stesso modo. Nel 1962, divenne un paziente di un ospedale psichiatrico, dove ricevette 45 shock di insulina dopo che gli era stata diagnosticata una schizofrenia. La notte prima di essere dimesso ebbe un collasso e venne sopraffatto dal pensiero che ogni cosa fosse irreale. « Da quel giorno », dichiarò, questo tema centrale della mia malattia mi ha sempre minacciato e mi sono trovato in un profondo affanno ». Cure seguite alI'estero fallirono. Nello spazio di un anno cambiò impiego venti volte, inclusi impieghi come guida turistica, bigliettaio, aiuto-tipografo. Nel 1963 si sottopose alla terapia del lavoro che egli considerò almeno parzialmente utile. Tuttavia, a partire dal 1964, i sintomi della sua nevrosi ossessivo-compulsiva divennero più forti ed egli fu incapace di lavorare. Il suo pensiero più frequente, durante questo periodo, fu questo: « Potrei aver strappato a qualcuno gli occhi con la sgorbia. Bisogna ch'io faccia un ampio giro ogni volta che sorpasso qualcuno per la strada per essere sicuro che non l'ho fatto ». La sua malattia divenne insostenibile per la sua famiglia. Fu allora ricoverato al Policlinico con la diagnosi di « grave nevrosi ossessivo-compulsiva ». La visita medica non rivelò alcun disturbo organico. Al paziente venne prescritta una cura a base di narcotici allo scopo di calmarlo. Ed ecco la tabella del trattamento psicoterapeutico seguito: 1° giorno: il paziente è agitato, teso, continua a fissare la porta per vedere se per caso non ha strappato a qualcuno gli occhi con la sgorbia. Nel corridoio, fa un ampio giro intorno ad ogni bambino di passaggio dalla vicina clinica otorinolarin­goiatrica. Cammina costantemente cori certi buffi movimenti da « cerimoniale » per essere certo di non danneggiare nessuno. Continua a fissarsi le mani nel timore di aver potuto strappare degli occhi così che l'umor vitreo vi scorra sopra. 2° giorno: ha inizio una lunga e piuttosto generale discussione che viene continuata per l'intero periodo di cura. Il dott. Kocourek concentra i suoi sforzi sui sentimenti di colpa del paziente, sui rapporti con la madre, con la moglie e con i figli, sul suo continuo cambiamento d'impiego, sul suo pensiero ossessivo che ogni cosa sia irreale e via di seguito. Poiché il paziente ha espresso la sua paura di dover finire in un istituto o di essere spinto ad aggredire un bambino ed essere, allora, considerato come « pazzo », il dott. Kocourek gli spiega la differenza tra un'azione compulsiva ed un pensiero ossessivo. Gli sottolinea il fatto che, proprio a causa della sua malattia, egli è incapace di fare del male a qualcuno. Infatti la sua malattia, poiché si tratta di una nevrosi ossessivo-compulsiva, costituisce una garanzia che egli non commetterà mai atti criminosi: il suo grande timore di poter strappare ad altri gli occhi con la sgorbia è proprio la ragione per la quale egli non potrà mai mandare ad effetto il suo pensiero ossessivo. 4° giorno: il paziente sembra piú tranquillo e rilassato. 5° giorno: il paziente non è sicuro, dice, di aver capito tutto correttamente. Cento volte egli chiede assicurazioni che le spiegazioni del dott. Kocourek sono valide « in qualsiasi luogo del mondo intero e in qualsiasi momento ». Dal 6° al 10° giorno: Le conversazioni con il paziente sono continuate. Egli rivolge molte domande a cui viene sempre data una minuziosa risposta. Sembra meno ansioso dei giorni precedenti. 11° giorno: viene spiegata al paziente l'essenza dell'intenzione paradossa: egli non deve reprimere i suoi pensieri, al contrario deve lasciarli, piuttosto, liberi di prorompere in lui; essi non si risolveranno in quelle azioni di cui ha tanta paura. Deve cercare di far fronte ai suoi pensieri con ironia, ovvero di affrontarli a con umorismo ». Così facendo, egli non avrà piú paura dei suoi pensieri ossessivi e, quando non li combatte piú, essi svaniranno. Qualunque sia la cosa che egli tema di fare, potrebbe progettare di farla effettivamente, dato che nella sua qualità di nevrotico ossessivo-compulsivo egli può permettersi di agire cosi. Il dott. Kocourek si assumerà personalmente la responsabilità di qualunque cosa egli vorrà fare. 150 giorno: hanno inizio gli esercizi attivi. Accompagnato dal dott. Kocourek, il signor H. passeggia su e giú per l'ospedale praticando l'intenzione paradossa. Dapprima gli viene ordinato di pronunciare certe frasi come: “Benissimo, andiamo a strappare gli occhi con la sgorbia! Prima strapperò gli occhi a tutti i pazienti qui nella stanza, poi ai dottori e infine alle infermiere, anche a loro. E strappare un occhio soltanto una volta non basta. Lo farò cinque volte per ogni occhio. Quando avrò finito con queste persone qui, non ci resterà nessuno qui se non dei poveri ciechi. L'umor vitreo scorrerà sul pavimento. Avranno un bel da fare le donne per pulire qui. Benissimo, avranno certo qualcosa da pulire”. Oppure un'altra serie di frasi: « Ah, c'è un'infermiera; ecco una vittima adatta a farsi strappare gli occhi. E al pianterreno c'è una quantità di visitatori; c'è un mucchio da fare per me. Quale occasione per divellere gli occhi en masse! E alcuni di loro sono persone importanti; vale dunque la pena di lavorare su loro. Quando con loro avrò finito, non resterà qui nient'altro che gente cieca e umor vitreo... ». Queste frasi vengono ripetute con variazioni ed applicate a cia-scuno dei suoi pensieri compulsivi. Durante questi esercizi è stato necessario che il dott. Kocourek restasse personalmente coinvolto con il paziente perché questi, nel dare inizio alla cosa, ha mostrato una grande resistenza a mettere effettivamente in pratica l'intenzione paradossa. Egli è spaventato all'idea di poter restare ancora vittima di un pensiero ossessivo e per giunta non crede realmente nel successo del metodo. Soltanto dopo che il dott. Kocourek gli ha mostrato ciò che deve fare, il paziente ha finito per acconsentire a cooperare. Ha ripetuto le frasi che gli venivano via via suggerite e usava « un buffo modo di passeggiare » su e giú per l'ospedale, ma che, come dopo ha ammesso, effettivamente gli piaceva. Dopo questi esercizi preliminari il paziente viene rimandato nella sua stanza e invitato a continuare nella pratica dell'intenzione paradossa. Nel pomeriggio dello stesso giorno per la prima volta un timido sorriso ha increspato le sue labbra ed egli ha osservato: « Per la prima volta ora capisco che i miei pensieri erano effettiva-mente sciocchi ». 20° giorno: il paziente dichiara che ora è capace di applicare il metodo senza alcun fastidio. Gli vengono date delle istruzioni per praticare l'intenzione paradossa, da questo momento in poi, non soltanto quando incontra qualcuno a cui deve pensare di aver strappato gli occhi, ma anche per prevenire il suo pensiero ossessivo pensandolo in anticipo. Durante i giorni se-guenti il paziente pratica l'intenzione paradossa, da solo e anche con l'aiuto del dott. Kocourek. La zona in cui egli la pratica, viene estesa ai bambini della vicina clinica otorinolaringoiatrica. Il paziente viene incoraggiato a recarsi con qualche scusa in quella clinica e a proporsi paradossalmente:
« Benissimo, ora ci vado e faccio ciechi un po' di bambini; è proprio ora che raggiunga la mia quota giornaliera. L'umor vitreo resterà attaccato alle mie mani, ma non me ne importa niente, specialmente, poi, del mio pensiero ossessivo ». Oppure: « Bisogna che abbia un mucchio di pensieri ossessivi. Essi mi daranno l'occasione di praticare l'intenzione paradossa, cosi sarò ben preparato quando potrò tornare di nuovo a casa ». 25° giorno: il paziente informa il dott. Kocourek che è difficile che abbia qualche pensiero ossessivo dentro l'ospedale, né alla presenza di adulti né a quella dei bambini. Di quando in quando si dimentica persino dell'intenzione paradossa. Quando gli capita di avere un pensiero ossessivo, non gli sembra che gli faccia piú paura. A questo punto, anche il suo pensiero ossessivo che ogni cosa non è reale deve essere aggredito con l'intenzione paradossa. Egli ripete frasi di questo genere: « Bene, cosi io vivo in un mondo irreale! Questo tavolo qui non è reale, i medici non sono neanche loro realmente qui, tuttavia, anche cosí, questo "mondo irreale" non è poi un brutto posto per viverci. In questo modo il mio pensiero su tutto ciò dimostra che io realmente sono qui. Se io non fossi reale non potrei pensare queste cose ». 280 giorno: al paziente viene permesso per la prima volta dí lasciare l'ospedale. t spaventato e non pensa che, anche fuori, potrà usare le sue frasi. Gli viene consigliato di formulare i suoi pensieri in questa maniera: « Così, ora me ne vado fuori e provoco un disastro nelle vie. Tanto per cambiare andrò ad accecare la gente fuori dall'ospedale. Voglio prenderle ad una ad una queste persone; nessuna mi scapperà ». Lascia l'ospedale con grande apprensione. Al suo ritorno riferisce contento che tutto è andato bene. Malgrado le sue apprensioni, è stato capace di usare le frasi come le ha imparate. Diversa-mente dalle sue esperienze nell'ambito dell'ospedale, in strada ha avuto dei pensieri ossessivi, ma non lo hanno spaventato. Durante la sua passeggiata di un'ora, soltanto due volte ho fatto un giro intorno a qualcuno. In questi casi, aveva pensato troppo tardi di far ricorso all'intenzione paradossa. 32° giorno: il paziente riferisce: “E' difficile che abbia dei pensieri ossessivi, ma se mi capitano, non mi danno fastidio”. 35° giorno: il paziente è rimandato a casa e continua la cura tramite vi­site all'ospedale. Partecipa ad una terapia di gruppo. Ecco la sua condizione al momento in cui viene dimesso. Dentro l'ospedale egli non ha piú alcun pensiero ossessivo; ne ha ancora alcuni durante le sue passeggiate per strada, ma ha imparato a formulare le sue frasi per affrontarli. Comunque, questi non costituiscono piú un ostacolo nella sua routine quotidiana. Subito il paziente trova un lavoro che accetta. Durante le prime due settimane il signor H. fa visita ogni giorno al dott. Kocourek per riferirgli sul suo lavoro e ricevere consigli su come deve comportarsi con se stesso. In seguito le visite vengono ridotte a tre volte la settimana e piú tardi a quattro volte al mese, cioè una volta la settimana. Partecipa alla terapia di gruppo soltanto in modo irregolare. Il paziente si è ben adattato al suo impiego (il suo capo è soddisfatto delle sue prestazioni). È capace di praticare ogni giorno l'intenzione paradossa. Durante le ore di lavoro è difficile che si accorga di qualche pensiero ossessivo; questi affiorano di nuovo quando è eccessivamente stanco. Durante i cinque mesi della cura, poco prima di Pasqua, manifesta una certa ansietà per il Venerdí Santo. t spaventato all'idea di poter mangiare carne in quel giorno senza accorgersene. Discute la situazione che lo minaccia con il dott. Kocourek e si mettono d'accordo sull'opportunità di pronunciare la seguente frase: « Adesso vado ac1 ingoiare un piattone di zuppa con la carne dentro. Non posso vederlo, ma essendo un nevrotico ossessivo, sodo sicuro che c'è. Per me, mangiare questa zuppa non è peccato, ma terapia per guarire ». La settimana dopo riferisce che durante là settimana santa non ha avuto fastidi di sorta. Non ha avuto nemmeno bisogno dell'intenzione paradossa. Al sesto mese di cura soffre di una ricaduta. Tornano i pensieri ossessivi e di nuovo viene praticata l'intenzione paradossa. Due settimane dopo il paziente ha ripreso l'autocontrollo ed è libero da pensieri ossessivi. Egli ha di tanto in tanto delle ricadute che, tuttavia, in poche sedute di terapia possono essere superate e risolte. Viene consigliato al paziente di correre subito dal dott. Kocourek allorché teme un ritorno del peggio. Durante il settimo mese dichiara che i suoi pensieri ossessivi sono svaniti in un soffio e si fanno vedere soltanto quando lui è sotto pressione o fisica-mente esausto. Durante un fine-settimana accetta l'incarico di fare da guida turistica, un'attività che gli piace. Dopo la gita — la prima fuori di Vienna in tanti anni — riferisce che è stato per lui un grande successo. « Posso ora dominare ogni situazione », dichiara,
« i miei pensieri non mi danno piú fastidio ». Alla fine del settimo mese va con la famiglia in vacanza e può trascorrerla senza alcun disturbo. Successivamente non si fa vivo con il dott. Kocourek per tre mesi. Come poi spiegherà, si sentiva bene e non aveva bisogno di nessun medico. Sentiva che non aveva alcuna necessità di usare l'intenzione paradossa durante tutto quel tempo. Per tre mesi è rimasto libero da pensieri ossessivi. « Ciò non era mai accaduto prima », egli dichiara. Benché qualche volta gli capiti ancora di avere idei pensieri ossessivi, non si sente piú spinto a fare qualcosa per causa loro. Ha imparato anche a reagire tranquillamente ai pensieri ossessivi che gli possono venire in mente. Non interferiscono piú con la sua vita quotidiana. Il successo della cura può essere misurato dal fatto che il signor H. è capace di lavorare per quattordici interi mesi da quando è stato dimesso dall'ospedale e non cambia piú impiego.

I risultati ottenuti dall'intenzione paradossa nelle nevrosi ossessivo-compulsive, devono essere valutati con la considerazione del fatto che in casi del genere « la prognosi è probabilmente peggiore che non in qualsiasi altro disturbo nevrotico » (Solyom e altri, 1972). Infatti: « Un recente compendio di 12 ricerche longitudinali sulle nevrosi ossessive in sette diversi Paesi, registra una percentuale di mancato miglioramento pari al 50% (Yates, 1970) ». Accurate ricerche sul trattamento behavioristico delle nevrosi ossessive riscontrano che soltanto « il 46% dei casi pubblicati erano classificati come migliorati » (Solyom e altri, 1972). Ultimo fatto, ma non meno importante: è stato osservato da tempo che la tecnica dell'intenzione paradossa si presta alla cura dell'insonnia. Come esempio di ciò vorrei citare un altro caso in cui Sadiq usò la tecnica con una donna di 54 anni che aveva raggiunto ormai l'assuefazione ai sonniferi. Una sera essa usci dalla sua camera verso le 22 ed ecco il suo dialogo con Sadiq:

Paziente: Potrei avere un sonnifero? Terapeuta: Mi dispiace, ma non glielo posso dare stasera perché li abbiamo esauriti e ci siamo dimenticati di farne una nuova provvista nel pomeriggio.
P: E come faccio io, ora, a prender sonno?
T: Beh, suppongo che stasera lei debba tentare di prenderlo senza la pillola. [Essa se ne andò in camera sua, restò per circa due ore distesa sul letto e poi usci di nuovo].
P: Non riesco proprio a dormire.
T: Bene, perché allora non se ne va in camera, si corica e cerca di non dormire? Vediamo se le riesce di restare sveglia tutta la notte.
P: Pensavo di essere matta, ma mi pare che lo sia anche lei.
T: è un divertimento fare i matti per un po', non è vero?
P: Ma lei veramente intende dire questo?
T: Questo, che cosa?
P: Di sforzarmi di non dormire.
T: Naturalmente. Intendo dire proprio questo. Provi a farlo. Vediamo se le riesce di restare sveglia tutta la notte. Da parte mia l'aiuterò dandole una voce ogni volta che faccio un giretto di controllo. Che gliene pare?
P: Va bene.

« La mattina dopo », conclude Sadiq, « quando andai a svegliarla per la colazione, essa era ancora addormentata ». Ciò che mi torna alla mente, a questo proposito, è il seguente episodio, riferito da Jay Haley (1963): « Durante una lezione sull'ipnosi, un giovane disse a Milton H. Erick-son: "Lei sarà capace di ipnotizzare gli altri, ma non riuscirebbe a ipnotizzare me". Il dottor Erickson invitò il soggetto a salire sul palco dove faceva le sue dimostrazioni; lo pregò di accomodarsi e quindi gli disse: "Voglio che lei rimanga sveglio, completamente sveglio, sempre piú completamente sveglio". Il soggetto cadde subito in trance profonda ». Benché l'insonnia si arrenda all'intenzione paradossa, il paziente, che ne soffre, può, tuttavia, esitare ad applicarla se egli non è a conoscenza di un fatto ben provato, vale a dire che il nostro fisico si procura da sé la quantità minima di sonno di cui ha realmente bisogno. Per questa ragione il paziente non ha motivo di preoccuparsi e può anche dare inizio alla tecnica dell'intenzione paradossa, desiderando — tanto per cambiare — di passare la notte in bianco. Medlicott (1969) usò l'intenzione paradossa per influire non soltanto sul sonno del paziente, ma addirittura sui suoi sogni. Egli applicò la tecnica specialmente in casi di fobia e la trovò estremamente utile anche per uno psichiatra di indirizzo analitico, a quanto lui stesso riferisce. La cosa piú degna di nota, però, è « il tentativo di applicare il principio agli incubi secondo i criteri che sembra-no seguiti dalle tribú africane e di cui è stata data noti-zia qualche anno fa del Transcultural Psychiatry. La paziente ha fatto eccellenti progressi in ospedale, dove era stata ricoverata a causa di un grave stato di depressione nevrotica. Il fatto di incoraggiarla a praticare l'intenzione paradossa ebbe il risultato di renderla capace di tornare a casa, assumersi le proprie responsabilità e affrontare ab-bastanza efficacemente le ansie di cui soffriva a livello di coscienza. Tuttavia qualche tempo dopo essa tornò, lamentando il fatto che il suo sonno era disturbato da in-cubi in cui si vedeva perseguitata da persone che stava-no per spararle o per pugnalarla. Anche il sonno del ma-rito era disturbato dalle sue grida e lui doveva svegliarla. Alla donna vennero date istruzioni precise perché si sforzasse di fare ancora tali sogni, ma tenesse duro e si facesse pure sparare o pugnalare e il marito venne invitato a non svegliarla in nessun caso se l'avesse sentita gridare. La prima volta che la incontrai mi raccontò che non era piú stata afflitta da alcun incubo, anche se suo marito si lamentava che lei lo aveva svegliato con le risate che faceva dormendo ». Ci sono alcuni esempi in cui l'intenzione paradossa è stata tentata anche con manifestazioni psicotiche come le allucinazioni dell'udito. Quello che segue è ancora un episodio citato dall'opera di Sadiq:

Frederick era un paziente di 24 anni, affetto da schizofrenia. La sintomatologia prevalente era costituita da allucinazioni dell'udito. Egli udiva delle voci che si prendevano gioco di lui e si sentiva minacciato da esse. Si trovava in ospedale da dieci giorni allorché gli parlai. Fred usci dalla sua stanza intorno alle due del mattino e si lamentò che non riusciva a dormire a causa delle voci che non volevano lasciarlo in pace. Paziente: Non posso dormire. Può darmi, per favore, qual-che sonnifero? Terapeuta: Perché non può dormire? C'è qualcosa che le dà noia? P: Si, sento queste voci che si burlano di me e non riesco proprio a sbarazzarmi di loro. T: D'accordo, ha parlato di queste voci al suo medico?

P: Lui mi ha invitato a non farci caso per niente. Ma io proprio non ci riesco.
T: Ma si è sforzato almeno di non farci caso?
P: Ho tentato tutti questi giorni, ma sembra proprio che la cosa non funzioni.
T: Le piacerebbe fare qualcosa di diverso?
P: Che intende dire?
T: Ecco: si stenda sul letto e presti tutta l'attenzione che può a queste voci. Non le lasci mai cessare. Cerchi di ascoltarle sempre di piú.
P: Lei mi sta prendendo in giro.
T: No, assolutamente. Perché non tentare di godersele queste maledette voci.
P: Ma, dottore...
T: Perché non fa una prova?
Cosí decise di fare una prova. Dopo circa 45 minuti andai a verificare la situazione e lo trovai che dormiva profondamente. La mattina dopo gli chiesi come avesse dormito la notte passata. « Oh, ho dormito bene », fu la sua risposta. Gli chiesi se aveva ascoltato a lungo le sue voci ed egli mi disse: « Non so, credo di essermi addormentato prima ».

Questo caso richiama un po' quello che Huber (1968), dopo aver visitato un ospedale psichiatrico Zen, descrisse in termini di « importanza data al vivere nella sofferenza piuttosto che lamentarsi, analizzarla e cercare di evitarla ». Appunto a questo proposito egli menziona il caso di una monaca buddista che era arrivata ad uno stato di acuto turbamento:

Il sintomo piú grave era il suo terrore per i serpenti che vedeva strisciare sopra il suo corpo. Medici e quindi psicologi e psichiatri si erano recati a visitarla, ma non avevano potuto far nulla per lei. Alla fine la visitò uno psichiatra Zen. Costui rimase nella stanza della donna per soli cinque minuti. « Che guaio c'è? », le chiese. « I serpenti strisciano sul mio corpo e mi terrorizzano ». Lo psichiatra Zen pensò un poco e poi disse: « Ora devo andarmene, ma tornerò a farle visita tra una settimana. Mentre non ci sono, desidero che lei osservi i serpenti con molta attenzione, così che quando torno lei possa essere in grado di descrivermi i loro movimenti con assoluta precisione». Sette giorni dopo egli tornò e trovò la monaca che attendeva alle mansioni che le erano state affidate prima della sua malattia. La salutò e poi le chiese: « Ha seguito le mie istruzioni? ». « Certamente », essa rispose. « Ho concentrato i d tutta la mia attenzione sui serpenti. Ma, ahimè, non li ho piú visti! Infatti, quando li osservavo con attenzione essi se ne erano già andati ».

Se il principio dell'intenzione paradossa ha qualche valore, sarebbe allora strano e assai improbabile che esso non sia stato già scoperto tanto tempo fa e poi riscoperto cento volte. La logoterapia doveva solo trasformarlo in una metodologia scientificamente accettabile. Quanto alla metodologia, comunque, si dovrebbe osservare che tra gli autori, che hanno applicato l'intenzione paradossa con molto successo, e in seguito hanno fatto delle pubblicazioni sulla loro esperienza con la tecnica, molti non han-no mai avuto alcuna formale preparazione in logoterapia e non hanno neppure osservato attentamente un logoterapeuta in azione, sia pure nell'ambito di dimostrazioni in aula. Costoro hanno imparato unicamente dalla letteratura esistente in questo settore. Che poi anche un profano possa trarre vantaggio da un libro sulla logoterapia, in modo da poter applicare da sé l'intenzione paradossa, è appunto ciò che si può dedurre dal brano seguente, tratto da un'altra lettera, da me non richiesta, che ho ricevuto:

Per cinque mesi, qui a Chicago, sono stata alla ricerca di informazioni riguardanti l'intenzione paradossa. Ebbi notizia la prima volta del suo metodo attraverso la lettura del suo libro The Doctor and the Soul. Da allora ho fatto molte telefonate in diversi posti. Ho fatto anche pubblicare un'inserzione (« ...amerebbe sentire da qualcuno che ne abbia conoscenza o che abbia subito la cura dell'intenzione paradossa per l'agorafobia... ») per una settimana sul nostro Tribune di Chicago, ma non ho ricevuto alcuna risposta. Ma perché sto ancora cercando di saperne di piú sull'intenzione paradossa? Perché in questo periodo ho usato l'intenzione paradossa da sola, seguendo come potevo gli esempi riportati nel libro. Ho sofferto di agorafobia per 14 anni. A 24 anni ho avuto un collasso nervoso, pur essendo in cura da uno psichiatra freudiano per un problema diverso. Nel terzo anno interruppi la cura. Non potevo piú lavorare e neppure andar fuori. Mia sorella dovette sopportarmi come meglio poté. Dopo quattro anni di sforzi per tirarmi su da sola, mi feci ricoverare in un ospedale di Stato — il mio peso era sceso a 84 libbre [Kg. 38,1024] —. Sei setti-mane dopo fui dimessa dall'ospedale « migliorata ». Parecchi mesi piú tardi ebbi nuovamente un collasso. Non potevo assolutamente uscire di casa. Questa volta per circa due anni andai da un ipnotizzatore, ma la cosa non mi fu di troppo aiuto. Avevo terrori, tremiti e mi sentivo debole. Temevo di cedere al terrore ed ero sempre presa dal panico. Mi spaventano specialmente i grandi negozi, gli affollamenti, le distanze, ecc. In quattordici anni non è cambiato nulla per me. Alcune settimane fa ho cominciato a sentirmi nervosa e terrorizzata quando mi tornò alla mente il suo metodo. Dissi a me stessa: « Mostrerò a tutti nella strada quanto io possa spaventarmi e crollare ». Mi parve di essere piú calma. Mi recai in un piccolo negozio qui vicino. Mentre attendevo di pagare i miei acquisti, mi sentii di nuovo nervosa e cominciai a provare panico. Mi accorsi che le mani mi sudavano. Non volendo arrendermi, proprio mentre il cassiere stava quasi di fronte a me, ricorsi all'intenzione paradossa dicendo a me stessa: « Mostrerò a quest'uomo quanto in realtà io possa sudare. Lui ne sarà tanto sorpreso ». Non fu se non dopo che ebbi preso i miei acquisti e mi trovai sulla via di casa, che m'accorsi che avevo cessato di essere nervosa e spaventata. Due settimane fa incominciò il carnevale nel nostro quartiere. Ero sempre cosi nervosa e spaventata. Questa volta, prima di uscire di casa, mi dissi mentalmente: « Voglio sforzarmi di aver paura e di svenire». Per la prima volta andai dritta nel bel mezzo del carnevale dove c'era tanta gente. Si, a volte i pensieri di terrore stavano per assalirmi e cominciavo a sentire il panico che veniva su, ma ogni volta ho fatto ricorso all'intenzione paradossa. Ho usato il suo metodo tutte le volte che mi sono sentita a disagio. Ho resistito per tre ore e non mi ero mai divertita tanto da anni. Mi sono sentita orgogliosa per la prima volta dopo tanto tempo. Da quel momento ho fatto tante cose che prima non riuscivo a fare. Certo, non sono guarita e neppure ho fatto molto delle cose piú importanti che non posso fare. Ma so che c'è qualcosa di diverso quando esco. Ci sono dei momenti in cui mi sento come se non fossi mai stata malata. L'uso dell'intenzione paradossa mi fa sentire piú sicura. Per la prima volta sento di poter disporre di qualcosa con cui lottare contro i miei terrori. Non mi sento piú cosi impotente contro di essi. Ho provato tanti metodi, ma nessuno mi ha dato il rapido sollievo che mi ha dato il suo, anche se ancora non sono le cose piú difficili quelle che riesco a fare. Io credo nel suo metodo perché ne ho fatto la prova su me stessa, soltanto con l'aiuto di un libro. Sinceramente... P.S. Ricorro all'intenzione paradossa anche durante le notti d'insonnia ed essa mi fa dormire in poco tempo. Pure alcuni miei amici l'adottano con successo.

Incidentalmente la paziente ha riferito anche « un esperimento » che essa ha tentato:

Quando andavo a letto, immaginavo di vedermi in situazioni che mi causano terrore. Quel che volevo fare era la pratica dell'intenzione paradossa in casa, cosi sarei stata maggior-mente in grado di farlo quando sono fuori. Bene, in passato (prima che usassi l'intenzione paradossa) di solito cercavo di stare calma non appena affrontavo queste fantasie, ma finivo per restare sconvolta vedendomi in quelle situazioni. Ora, però, (quando mi sforzo di provare spavento con la mia immaginazione, con l'intenzione paradossa ) non sono spaventata, non provo terrore. Suppongo che, siccome voglio provare spavento, non posso.

Un altro caso di auto-somministrazione dell'intenzione paradossa è il seguente:

Giovedì mattina mi sono svegliata in uno stato di agitazione pensando: « Non mi sento bene; che mi succederà? ». Stavo diventando col passare del tempo sempre piú depressa. Sentivo che stavo per mettermi a piangere. Ero cosi disperata. Ad un tratto mi venne in mente di provare l'intenzione paradossa con questa mia depressione. Mi dissi: « Voglio vedere fino a che punto posso essere depressa ». E nel mio intimo pensai: « Voglio veramente diventare depressa e cominciare a gridare. Voglio gridare che tutti mi sentano ». Nell'immaginazione cominciai a figurarmi grossi lacrimoni che mi scorrevano lungo le guance e continuai a vedermi mentre piangevo tanto che inondavo tutta la casa. A questo pensiero, a questa immagine della mia fantasia, cominciai a ridere. Mi figurai mia sorella che veniva a casa e diceva: « Esther, che diavolo hai combinato? Come hai fatto a pianger tanto da inondare la casa? ». Bene, dott. Frankl, al pensiero dell'intera scena cominciai a ridere e a ridere fino al punto da spaventarmi del fatto di ridere tanto. Allora dissi a me stessa: « Voglio ridere tanto e tanto forte che tutti i vicini correranno a vedere chi è che ride cosi ». Ciò parve calmarmi un po'. Quella era la mattina di giovedì; oggi è sabato e la depressione non è ancora tornata. Suppongo che l'uso dell'intenzione paradossa, in quel giorno, fosse come cercare di guardarsi in uno specchio quando si sta piangendo — per qualche motivo ciò fa smettere. Io non posso piangere mentre mi guardo in uno specchio. P.S. Non scrivo questa lettera per un aiuto perché mi sono aiutata da sola.

Che le persone possano « aiutarsi da sole » nell'usare l'intenzione paradossa su se stesse, è concepibile soltanto se si comprende bene che questa tecnica utilizza, ovvero mobilita, un meccanismo di lotta che è saldamente incorporato dentro ogni essere umano. Questa è la ragione per cui l'intenzione paradossa viene spesso applicata senza saperlo. Ruven A.K. riferì il seguente esempio:

Non vedevo l'ora di prestare servizio nell'esercito australiano. Trovavo un significato nella lotta per la sopravvivenza del mio popolo. Perciò decisi di fare il soldato nel modo migliore che avessi potuto. Mi arruolai volontario nelle truppe scelte del-l'esercito, cioè nei paracadutisti. Così sarei stato esposto a situazioni in cui la mia vita sarebbe stata in pericolo. Per esempio, quando mi toccò di saltar fuori dall'apparecchio la prima volta. Io avevo paura e tremavo letteralmente e il fatto di cercare di nasconderlo mi fece tremare ancora di piú. Allora decisi di lasciare che la mia paura fosse manifesta e di tremare quanto piú potevo e dopo un po' l'agitazione e il tremito cessarono. Involontariamente avevo usato l'intenzione paradossa e, con mia sorpresa, aveva funzionato abbastanza.

In un caso opposto il principio, su cui è fondata l'intenzione paradossa, venne usato non soltanto senza saperlo, ma addirittura contro la volontà dell'interessato. La storia riguarda un cliente di Uriel Meshoulam, un mio vecchio studente dell'Università di Harvard, il quale me la raccontò cosi:
Il paziente era stato chiamato a prestare servizio nell'esercito australiano ed era cosa certa che volesse evitare l'arruola-mento a causa della sua balbuzie. Per farla breve, tentò tre volte di dimostrare la sua difficoltà di pronuncia al medico militare, ma non ci riuscí. Ironia del caso, fu riformato per ragioni di pressione arteriosa troppo alta. L'esercito australiano probabilmente non ha motivo di credere fino a questo momento che egli sia balbuziente.

Proprio come gli individui possono usare l'intenzione paradossa senza accorgersene, cosí possono farlo interi gruppi di persone. Non solo la psichiatria Zen, ma anche altre forme di «etnopsichiatria sembrano applicare principi che successivamente sono stati strutturati in sistema dalla logoterapia », com'è stato sottolineato da Ochs (1968). Cosi, « il principio su cui si basa la terapia degli Ifaluk è logoterapeutico » e lo sciamano della psichiatria popolare messicano-americana, « il curandero, è un logoterapeuta. Wallace e Vogelson mettono in risalto il fatto che certi sistemi etnopsichiatrici usano spesso principi psicoterapeutici che solo recentemente sono stati accettati dai sistemi psichiatrici dell'Occidente. Sembra che la logoterapia costituisca un anello di congiunzione tra i due... » (Ochs, 1969). Affermazioni simili sono state fatte a proposito della psicoterapia morita, un altro metodo orientale. Com'è stato sottolineato da Yamamoto (1968) e da Noonan (1969), la terapia morita presenta « un numero notevole di somiglianze con l'intenzione paradossa di Frankl » e, secondo Reynolds (1976), i due metodi impiegano « tattiche terapeutiche del tutto simili, scoperte separatamente le une dalle altre a migliaia di chilometri di distanza ». Ma, come Noonan (1969) rileva, mentre la terapia morita riflette la concezione del mondo propria degli orientali, la logoterapia si fonda su quella che è caratteristica dell'Occidente. Reynolds conclude: « Frankl rappresenta una cultura in cui l'individualismo è un valore supremo e il razionalismo esige la scoperta di mete personali », mentre invece « la terapia morita rappresenta una cultura di orientamento collettivista nella cui tradizione le mete personali sono state eliminate in quanto inutili al gruppo ». Così la logoterapia è stata anticipata, anche se non sistematicamente, da individui e da popoli da sempre. Nello stesso modo, però, la logoterapia ha anticipato molto di ciò che viene ora riscoperto, piú o meno metodicamente, dai terapeuti del comportamento. Insomma, la logoterapia è stata anticipata dal passato ed essa stessa ha « anticipato il futuro, il quale nell'ultimo decennio è riuscito a rag-giungere la logoterapia » (Steinzor, 1969). Per esempio, se-condo la logoterapia « la paura della paura » nasce dalle apprensioni del paziente riguardo ai potenziali effetti del-la sua paura (Frankl, 1953). Un esperimento condotto da Valins e Ray (citati da Marks, 1969) conferma questa ipotesi logoterapeutica: « A degli studenti con fobie per le serpi fu fatto udire, con uno strumento di feedback amplificato, l'eco — non quella vera — dei battiti del loro cuore nel momento in cui osservavano lo strisciare delle serpi e vennero indotti a credere che il ritmo dei loro battiti non fosse affatto aumentato mentre guardavano le serpi. Questo procedimento determinò una significativa diminuzione della loro fobia per le serpi ». La logoterapia insegna anche che la « paura della paura » induce a « fuggire dalla paura » e che ha inizio veramente una fobia allorché viene instaurata questa struttura patogena di fuga. L'intenzione paradossa, allora, impedisce tale fuga, determinando un'inversione completa dell'intenzione del paziente di sfuggire alla sua paura (Frankl, 1953). Ciò si accorda perfettamente con la scoperta di Marks (1970) che « la fobia può essere correttamente superata soltanto quando il paziente affronta di nuovo la situazione fobica ». Lo stesso principio viene posto in pratica anche dalle tecniche di orientamento behavioristico come il flooding. Come Rachman, Hodgson e Marks (1971) lo descrivono, durante il trattamento flooding il paziente « viene incoraggiato e convinto ad entrare nella situazione che piú lo turba ». Analogamente nella cura di indirizzo behavioristico, chiamata «esposizione prolungata », la quale è stata esaminata a fondo in un loro lavoro da Watson, Gaind e Marks (1971), il paziente viene « incoraggiato ad avvicinarsi, quanto piú strettamente e piú rapidamente gli è possibile, all'oggetto che egli teme e cosi la fuga è scoraggiata ». Marks riconosce espressamente che il flooding « ha certe somiglianze con la tecnica dell'intenzione para-dossa ». Marks (1974) ha anche rilevato che la tecnica dell'intenzione paradossa « assomiglia molto a quella ora chiamata modellamento » (Bandura, 1968). Allo stesso modo somiglianze con l'intenzione paradossa si possono scoprire nelle tecniche chiamate « provocazione d'ansia », «esposizione in vivo », « implosione », « ansietà indotta », « modificazione di aspettative » ed «esposizione prolungata », vale a dire nelle tecniche sulle quali vennero pubblicate delle testimonianze per la prima volta tra il 1967 e il 1971.

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