Con questo racconto ho avuto la soddisfazione di vincere un premio letterario. E' stato pubblicato nella collana "I racconti del Prione", Edizioni Giacché, La Spezia, 2010.
Il giovane Ananda camminava sulla strada calda e polverosa. Il
crepuscolo tingeva ogni cosa di un avvolgente color ocra: l'erba dei prati
secca e rada, i bassi cespugli e gli alberi che svettavano in un pulviscolo dorato.
La natura aveva bisogno di acqua ed il monsone non avrebbe tardato ad arrivare.
Ananda si sentiva stanco. Aveva percorso un lungo tragitto per
arrivare al monastero di Bodhgaya, verso cui si era messo in marcia molti mesi
prima. Da molto tempo aveva desiderato visitare il luogo dell'illuminazione del
Buddha, il Sublime, in un pellegrinaggio mistico di speranza. Ne sentiva il
bisogno, quasi che la visita a quel luogo straordinario, che aveva assistito
alla suprema esperienza di salvezza, potesse aiutarlo nel suo percorso alla
sequela dell'Illuminato.
Da tempo allignava nel suo intimo un senso di scoramento e di
impotenza che lo paralizzavano, facendogli percepire come impossibile, se non
addirittura assurda, la meta che egli si era proposto di raggiungere anni prima,
quando aveva "preso rifugio nel Buddha, nella Sua dottrina, nella
Comunità", secondo quanto recitava la tradizionale formula di richiesta di
ammissione al noviziato.
Da tempo l'entusiasmo che aveva segnato il primo periodo della
vita ascetica si era raffreddato. Il passaggio dalla vita laicale a quella
consacrata era stato connotato da notevoli progressi spirituali che avevano
molto appagato il suo amor proprio. Nella sua nuova condizione aveva facilmente
abbandonato le abitudini di chi vive a contatto con le vanità del mondo. I
ritmi della vita comune, gli insegnamenti del maestro e l'esortazione dei
confratelli lo avevano sollevato, quasi senza che egli facesse alcuno sforzo,
al di sopra delle usuali preoccupazioni nelle quali si affaticano gli uomini
comuni, facendolo sentire a buon punto nel suo cammino di perfezione. Si era
sentito come portato da un'onda ed aveva pensato che sarebbe stato sufficiente
abbandonarsi alla sua forza senza irrigidirsi, senza opporre resistenza, per
riuscire ad arrivare alla mèta. Poi, poco per volta, impercettibilmente, uno
strano grigiore era salito al suo orizzonte. L'onda che lo aveva sollevato non
era sembrata più così gaiamente cerulea. Il grigiore aveva contaminato anche
lei. Né sembrava essere ancora così potente; il suo slancio era parso
esaurirsi. Emergevano, anzi, delle piccole ma inquietanti cime di scoglio,
scure e lucide, popolate di animaletti minacciosi e di alghe scivolose.
Da un lato era emersa la noia: noia per le ripetute pratiche
quotidiane, noia per la lentezza dei ritmi delle giornate, noia per l'avvenuta
acquisizione delle minime capacità di autocontrollo ed autodeterminazione che
caratterizzano la vita del monaco. La gioia di apprendere qualche cosa, che lo
rendeva così diverso, da principio, aveva lasciato il posto all'ovvietà della
condizione stessa. D'altra parte, il terreno desolato della noia aveva una
connotazione di inquietudine. Egli infatti era spaventato. Come poteva esser
noiosa la via della salvezza? Per quale ragione? Non parlava forse il sacro
Dhammapada della felicità che caratterizza la vita di chi segue la santa
Dottrina dell'Illuminato? Cosa aveva sbagliato? In tal modo le preoccupazioni,
gli affanni, i timori che aveva creduto definitivamente superati, che aveva
forse troppo ingenuamente ritenuto patrimonio esclusivo della vita dell'uomo
comune, erano tornati. E forse, in qualche modo, si erano moltiplicati. Si,
perché nel momento in cui egli si era trovato a dubitare del proprio futuro,
contemporaneamente, senza avvedersene, aveva aperto uno spiraglio alla
nostalgia per il passato, per ciò che di bello e desiderabile aveva in sé e che
allora, in quel momento di debolezza, gli risultava tanto più degno e, nella
sua distanza, acutamente doloroso.
Egli subìva questa duplice sofferenza, quella che derivava dal
dubbio sul futuro e quella derivante dalla nostalgia del passato, senza
rendersi conto del loro profondo legame, senza avvertire che formavano un unico
tessuto, quel cappio che lo soffocava. Così si era deciso a chiedere al maestro
il permesso di intraprendere questo pellegrinaggio sui luoghi dell'Illuminazione
del Buddha. Aveva avuto questa idea forse nell'inconscia speranza di ripetere
un'esperienza di radicale rinnovamento, come quando era entrato in monastero,
anni prima. Uno scossone alla monotonia della vita sedentaria, una nuova e più
forte sfida alla pigra quiescenza con cui l'uomo si adatta ad ogni situazione,
pervertendone gli scopi ed il valore.
Il maestro si era riservato di rifletterci ed era trascorso molto
tempo senza che al giovane arrivasse alcuna risposta. Settimane, mesi. Ananda
quasi disperava in una decisione a favore. Anzi, dubitava che il maestro si
fosse ricordato della sua richiesta. Una sera, poco prima dell'ora di
coricarsi, l'anziano maestro venne a cercarlo. Gli disse di aver riflettuto a
lungo, ma che egli aveva lasciato trascorrere tutto quel tempo per metterlo
alla prova. La sua capacità di attendere era stata tale da tramutarsi in una
tacita rinuncia al suo progetto. Una rinuncia a se stesso. Per questo, solo ora
era giusto che ricevesse una risposta. Come qualcosa di ormai non necessario,
superato, in qualche modo inutile, dato che egli aveva saputo dimostrare di
poterne fare a meno. Un qualcosa di accettabile proprio perché ormai non più
proveniente dal proprio io, principale nemico di noi stessi.
Né la risposta poteva essere altrimenti che positiva perché in
realtà, ciascuno conosce i suoi bisogni, come le sue debolezze, meglio di
chiunque altro. Specialmente quando la conoscenza di sé la si ottiene al
vaglio dell'ascesi, che la purifica come l'oro nel crogiuolo.
Ma se il discepolo avesse ripetuto la sua richiesta, avrebbe
dimostrato di essere ancora profondamente ancorato a se stesso, distante dallo
spirito della regola del Buddha. In tal caso, non solo avrebbe meritato un
diniego, ma forse sarebbe stata necessaria una revisione della sua vocazione.
Grande era stata la gioia di Ananda a queste parole. Finalmente
si riaccendeva in lui la speranza di un nuovo progresso spirituale. Non solo:
aveva ottenuto il privilegio di un elogio da parte del maestro, che lo
incoraggiava se possibile ancor di più e leniva le sue angosce profonde.
L'indomani, dopo la meditazione dell'alba, sarebbe partito. Come
un padre, il maestro gli fece raccomandazioni di prudenza, soprattutto
spirituale: mantenere viva l'attenzione allo scopo del pellegrinaggio e della
propria vita, il distacco da ogni preoccupazione di tipo materiale, l'equanimità
nell'accettazione delle elemosine, senza riguardo alla quantità e alla qualità
del dono.
***
Ananda era partito pieno di entusiasmo, senza portare nulla
appresso. Uscito dal monastero, percorso un tratto della strada scoscesa che
conduceva verso il paese, si voltò a guardare e si commosse vedendo in lontananza
i confratelli, quasi irriconoscibili, affollati sulla porta che agitavano le
mani in un amorevole gesto di augurio. Non li aveva salutati personalmente.
Aveva lasciato che fosse il maestro a metterli al corrente della sua partenza,
al termine della meditazione del mattino, quando ancora tutti erano ancora
riuniti.
***
Il ritmo dei passi lo aiutò molto a meditare. Egli riusciva a
portare in sé il silenzio dell'eremo anche fuori dalle sue mura. La bellezza
della natura gli permetteva di mantenere il silenzio interiore e la
concentrazione. Saggiamente, egli cercava percorsi solitari, per evitare
qualsiasi distrazione inutile. Evitava le città, i luoghi abitati, prediligendo
le strade in alta quota, anche a rischio di non trovare riparo per la notte o
cibo a sufficienza. I paesaggi aspri, severi, divenivano ai suoi occhi
metafora del suo difficile cammino spirituale. La loro bellezza implicava la
loro fatica e questa ne accentuava il fascino.
Ma non poteva sempre rimanere a quelle altezze e a quei rigori.
Perciò spesso attraversò ricche campagne dal clima umido e dai campi
abbondantemente coltivati. La sua ciotola fu colmata di cibi gustosi e di latte
odoroso; i suoi ricoveri furono comodi e caldi. Ananda vegliava su se stesso.
Sapeva che il fine di ogni azione doveva essere il Nirvana e che ogni pensiero
doveva rivolgersi in quella direzione.
Un giorno, mentre consumava il suo pasto in riva ad un torrente,
udì delle risa di gioia poco lontano. Un gruppo di fanciulle stavano lavando
della biancheria sulla riva e scherzavano, giocando fra spruzzi e schizzi.
Accortesi di Ananda, che si era mosso per vedere chi fosse a far tanto rumore,
rimasero intimorite e subito si ricomposero parlando sommessamente. Al giovane
dispiacque che la sua apparizione avesse arrestato la loro gioia. Davvero egli
ispirava solo timore e mestizia? Vincendo la sua timidezza, si avvicinò
ulteriormente chiedendo scusa del disturbo arrecato e pregandole di continuare
pure a divertirsi senza paura. Egli apprezzava la gioia, riteneva fosse una
cosa naturale, salutare; egli stesso, disse loro, pur facendo un pellegrinaggio
particolarmente lungo e difficile, provava una grande felicità.
Le ragazze, acquistata così una certa confidenza, si sentirono
più a loro agio e ripresero la loro attività ed il loro chiacchiericcio, pur
senza esagerare. Infine, messi i panni nei cesti, si sedettero intorno ad
Ananda e cominciarono a fargli domande sulla sua vita, la sua vocazione, sul
senso di certi insegnamenti dell'Illuminato. Dimostravano molta intelligenza e
conoscenza dei testi della tradizione. Egli si prodigò a dar spiegazioni,
nell'utilizzo di un linguaggio chiaro e semplice; non si pavoneggiò di fronte a
loro per l'impegno delle sue scelte e la durezza della sua vita.
Verso la metà del pomeriggio le ragazze si allontanarono ed
Ananda restò a meditare sulla bellezza di quell'esperienza. Il sincero
interesse di quelle donne lo aveva colpito. La loro intelligenza, la loro
capacità di seguire i ragionamenti più impegnativi del pensiero buddhista aveva
appagato un suo recondito desiderio di donare, di sentirsi utile, di trasmettere
la propria ricchezza culturale e spirituale per il bene degli altri. Per un pò
cullò nel suo cuore questa idea, immaginandosi dèdito allo studio e
all'insegnamento, attorniato da discepoli desiderosi di imparare e grati per
la dedizione con cui svolgeva il suo compito. Nel gruppetto, fra gli allievi,
faceva capolino una delle fanciulle che lo avevano interrogato e ascoltato quel
pomeriggio. Ammirata, lo ascoltava senza perdere una parola e lo guardava senza
distrazione alcuna, quasi penetrandolo con gli occhi. Così come aveva fatto
quel pomeriggio. Gli occhi neri e la bocca dalle labbra sanguigne appena
dischiuse, quasi in un'estasi, gli erano rimaste impresse nella memoria, facendosi
spazio nelle sue innocenti fantasie. Il suo sguardo interiore cercò di
distrarsi da quel volto: si sforzò di immaginare che altri discepoli intervenissero
in quella lezione di cui andava fantasticando e ponessero questioni
interessanti, ingaggiassero discussioni appassionanti con lui. Ma non poté
evitare che anch'ella si alzasse per porre una domanda. Una domanda che egli
temeva, che attendeva appassionatamente ma che al contempo scongiurava non
venisse posta. Con uno sforzo cancellò quell'immagine. Nessuna domanda gli era
stata posta, ma un senso di spavento lo aveva lasciato atterrito. Il cuore
batteva forte e nulla, in quel momento, gli sembrò più importante intorno e
dentro di sé.
Come si sentiva fragile. Come era ripida ed insidiosa la via
dell'ascesi! Soprattutto, mai avrebbe immaginato che il sottile velo
ingannevole di Maya potesse mascherare e confondere così abilmente i moti
dell'animo. L'entusiasmo spirituale più sincero aveva contrabbandato ciò da cui
un monaco dovrebbe rifuggire sopra ogni cosa. Grande era la sua inesperienza!
Lo sconforto lo riprese. Nuovamente non si sentì all'altezza. E si
interrogò: "Quandomai riuscirò ad arrivare alla perfezione del distacco?
Come potrò raggiungere la liberazione da ogni attaccamento in questa
vita?" Troppo grandi gli apparivano gli ostacoli che portava in se stesso,
per un cammino così impegnativo. E ancora si crucciava: "Quante volte
dovrò rinascere, appesantito dal mio io, dalle mie passioni? Quale karma,
quale eredità trascino con me dalle vite precedenti, se devo continuamente
misurarmi con così tante e tali difficoltà?". La mèta tornava ad essere
distante, mentre si faceva nuovamente vicino il senso di scoraggiamento che lo
aveva aggredito tempo addietro e per cui aveva chiesto di intraprendere il
viaggio.
***
Talvolta i desideri restano inespressi per la vergogna che di essi
si prova. Polverizzati nel loro contenuto, rimangono nell'animo creando una
nebbiolina diffusa di insoddisfazione e di angoscia. Ananda era stato molto
deciso e con forza aveva interrotto il suo sogno ad occhi aperti. Questa
censura non gli aveva però riportato la pace. Continuava a sentirsi inquieto e
minacciato. Non voleva ammettere che avrebbe desiderato più di ogni altra cosa
che la domanda della fanciulla fosse stata formulata.
Nei giorni successivi si era impegnato a fondo per estirpare
quella contaminazione interiore attraverso strenui digiuni e lunghe ore di
meditazione. E la notte, aveva deciso di proseguire il cammino per evitare le insidie
del sonno.
Ora, al crepuscolo di un giorno come tanti, si ritrovava senza
forze e bisognoso di acqua e di riposo. Stanco com'era, temeva addirittura di
non riuscire ad arrivare alla sua mèta in un tempo ragionevole. Ci sarebbero
voluti in ogni caso ancora parecchi giorni, forse qualche settimana. Chissà
cosa pensavano i confratelli del suo monastero, non avendo più avuto di lui
alcuna notizia? E il suo maestro? Avrebbe dubitato, dopo così tanto tempo,
della fermezza del suo proposito spirituale?
Decise di fare una breve questua per sfamarsi e si avvicinò così
alla cittadina che appariva appena, nascosta fra l'ombra delle montagne e il
disco abbagliante del sole che declinava.
***
La questua di un monaco è in genere sempre ben ricompensata dai
fedeli. Così anche quella sera la ciotola del giovane Ananda si colmò di riso
ben condito di salsa piccante.
Appartatosi nei pressi di un corso d'acqua -sempre cercava fiumi e
torrenti per lavarsi e ristorarsi- si accingeva a consumare il suo pasto quando
si sentì chiamare e si accorse della presenza di un anziano poco distante da
lui, seminascosto da un cespuglio. Non dava segno di volersi alzare, ma seguitava
a chiamare il giovane pregandolo di avvicinarsi. Solo quando gli fu vicino, il
monaco si accorse che era storpio. Questi gli chiese un pò del suo pasto: non
aveva ricevuto molto in elemosina quel giorno e non aveva potuto comperarsi
nulla da mangiare. Ananda volentieri divise con il mendicante il cibo ricevuto
nella sua questua. Dopo mangiato, si intrattennero un pò a chiacchierare.
L'anziano era persona gentile e si dimostrò osservatore molto acuto. Si accorse
del turbamento che scuoteva l'animo di Ananda. Dalla premura con cui il monaco
si era comportato nei suoi confronti, aveva anche intuito la grande sensibilità
d'animo del suo interlocutore. Perciò, quasi a distoglierlo dai grevi pensieri
che evidentemente turbinavano in testa al giovane, si dilungava a raccontargli
delle sue giornate, dei luoghi nei quali normalmente si fermava a mendicare,
dei tipi di persone dalle quali ci si poteva aspettare o meno un dono,
un'elemosina, un saluto. Con estrema discrezione evidenziò una certa analogia
fra loro due, nella comune condizione di povertà e di dipendenza dagli altri.
Ananda fu colpito da quel che egli interpretò come impudenza. Con chiarezza,
sottolineò che non poteva esserci paragone fra la loro condizione, perché il
doloroso stato del mendicante era conseguenza di peccati commessi in vite
precedenti. Certo avrebbe potuto -e questo glielo augurava di cuore-
riscattarsi in vite future, come egli stava cercando di fare per se stesso, ma
restava il fatto che non si trovavano in egual posizione all'interno del grande
sistema di cicli che governa l'universo.
L'anziano lo guardò con paterna tenerezza. Non si era offeso per
questa digressione dottrinale, dalla quale trapelavano contemporaneamente tutto
l'entusiasmo del giovane per la dottrina e la sua inesperienza nella ricerca
della salvezza.
"Forse, anzi probabilmente hai ragione, mio giovane benefattore"
riprese il mendicante "ma a che ti giova saperlo? A cosa serve conoscere
quel che accadde nella vita precedente di uno di noi? O stabilire chi si trova
più in alto nella scala che conduce alla salvezza?" Ananda non si era mai
posto una simile domanda e rimase perplesso. Ma questi lo incalzò: "come
puoi pensare di distaccarti da te stesso se sei così abbarbicato persino alle
tue vite precedenti? Se vuoi dimostrare di essere migliore di altri?" Il
monaco era a disagio e si vergognava, perché in realtà il vecchio non diceva
cose sbagliate. Arrossì.
"E' vero -ammise- quel che conta è il futuro, da cui solo può
sbocciare la salvezza. Chiedo scusa umilmente della mia presunzione. In
realtà io non ricerco il mio passato, anzi lo rifuggo ed ogni volta che mi si
presenta con seduzione mi rifugio nel digiuno e nell'ascesi per dimenticare.
La mia vera mèta sta nel futuro. Per questo mi trovo in viaggio, nella
condizione di pellegrino, sulla via di Bodhgaya. Là, in quel luogo santo, che
ha visto l'illuminazione del Sublime, spero di ottenere l'aiuto spirituale per
uscire definitivamente dal ciclo delle rinascite".
Ancora una volta il mendicante, mosso a tenerezza, lo trattò come
un figlio. "Non il passato, non il futuro esistono, caro. Solo il
presente. Solo il momento presente è degno di attenzione. Il presente è la
vita, che cela la doppia possibilità della disperazione o della salvezza. E
saperlo è saggezza".
"Ma come puoi, proprio tu, dire così? Come puoi, così
ridotto, fare simili affermazioni?" replicò con voce rotta, imbarazzato,
il giovane Ananda.
"La mia miserevole condizione è garanzia di quel che affermo.
Afflitto dal dolore, dapprima ho invidiato gli uomini, poi li ho odiati, poi ho
odiato me stesso. Che mi rimaneva da fare? Vivere sognando vite successive
migliori? Rinunciare a vivere questa vita in preda allo spavento? Morivo,
soffocavo. Allora non ho potuto fare a meno di aprire gli occhi e considerare
con attenzione la realtà così com'è per viverci al meglio. 'Il saggio nell'attenzione
trova la felicità... egli diviene un'isola che il diluvio non può sommergere'
recita il venerabile Dhammapada. Ed io l'ho sperimentato. Solo l'accettazione
del presente senza fughe in avanti o indietro mi ha portato serenità".
Ananda si sentiva scosso da questo improvviso cambio di prospettiva,
dal pensiero che qui ed ora erano il luogo della salvezza, l'unica opportunità
che gli si offriva. Aveva fatto capolino in lui il pensiero che fino ad oggi
egli avesse perduto molte occasioni, che avesse solo giocherellato con la
vita, che l'ossessivo pensiero della salvezza futura, come quello della sua condizione
in una esistenza precedente, non fossero stati altro che alibi per sfuggire
all'unica verità, alla realtà così come essa si propone al di là dei sogni e
delle fantasie.
"Ma allora... vuoi forse dirmi che non esistono i cicli delle
rinascite?" chiese ingenuamente, allarmato, il giovane "... che è
tutto falso quel che è stato scritto?"
"No" lo rassicurò il vecchio. "Voglio dire che
l'unica forma che il tempo assume per noi è il presente. Ascolta questo
esempio. La ruota tocca il terreno in un sol punto: è il presente. Come la
ruota della salvezza, sorretta dagli otto raggi della saggezza buddhista. Se il
passato o il futuro acquistano un tal peso da distrarre dal presente è perché
la ruota si è rotta o si è tolta dal suo perno e giace a terra con tutto il suo
cerchio. Allora il passato e il futuro pesano su di noi sotto forma di
rimpianto e di angoscia. Ma tutto ciò è segno che abbiamo sbagliato qualcosa.
Che cerchiamo si sfuggire a ciò che siamo. Che non accettiamo il presente. E
non sappiamo trovare al suo interno la via della pace interiore".
Ananda ascoltava attentamente. Poiché pareva perplesso, il vecchio
continuò: "prendi me, per esempio. Come potrei pensare di fare gare di
corsa con qualcuno? Ma questa mia impossibilità ha perduto il volto doloroso
della rinuncia. Non lo desidero neppure più. Sono salvo da me stesso, non mi
procuro più dolori da solo. Solo nell'accettazione del mio limite ho vinto il
dolore. E provo qualcosa di simile a quel che forse è l'imperturbabilità, una
serenità inattaccabile".
"Credo che, se siamo schiacciati dal tempo che non esiste, è
perché stiamo sfuggendo a ciò che il presente ha da dirci, a ciò che avrebbe da
insegnarci. Dobbiamo rimettere a posto la ruota, affinché tocchi nuovamente
in un sol punto il terreno dell'esistenza. Solo quando un uomo sa guardare
negli occhi il presente ed accettare la sua sfida può dire di essere sulla via
giusta".
A quelle parole il giovane Ananda proruppe in un pianto
irrefrenabile, sincero, liberatorio. Lo sconvolgimento iniziale ed il sospetto
che dapprima aveva nutrito verso ciò che il vecchio andava dicendo avevano poco
a poco lasciato il posto ad una sintonia profonda con le sue considerazioni.
Forse, dentro di sé, lo aveva sempre saputo, ma non aveva mai avuto il coraggio
di ammetterlo. Come quando, nella sua fantasia, aveva impedito alla ragazza la
domanda cruciale.
Ma ora quel coraggio lo aveva trovato. Gli era stato dato come una
grazia. Ora tutto gli era chiaro. Una pace profonda, dopo il pianto, lo
permeava. In silenzio, si prostrò di fronte alle gambe nodose dello storpio,
suo eminente maestro, e gli baciò i piedi.
Il suo pellegrinaggio era giunto
al termine
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