martedì 17 giugno 2014

Il bello nell'arte - parte quarta


Il bello e le mode


L’estrema banalizzazione del bello si ha attraverso le mode. La potenza persuasiva messa in atto dal sistema di condizionamento delle masse (TV, giornali, internet, social network, elaborazione di modelli di cantanti funzionali a determinati obiettivi, etc) si esprime nella capacità di convincere, ogni due o tre anni, un numero immenso di persone, soprattutto giovani, della bellezza di un tipo di vestiario, di un colore, di certi modi di pettinarsi. Si sa che tutti questi ragazzi si adegueranno come un immenso gregge. Tutti crederanno di aver scelto liberamente in base al proprio gusto e si convinceranno di essere persino originali, incapaci di rendersi conto di essere semplicemente uguali a tutti gli altri. Taluni si sentiranno più sicuri proprio perché parte della massa. Infatti la maggioranza crea un senso di sicurezza, di invulnerabilità. Come certi pesci che, non avendo difese, si radunano in fittissimi banchi per impressionare i predatori e disorientarli.

Una moda è di per se stessa destinata a morire per lasciare il posto ad una moda diversa. Se una persona resta indietro, cioè se non si aggiorna secondo i modelli imposti dalla nuova moda, se continua a vestirsi come andava qualche anno prima; se continua ad usare una giacca, un paio di calzoni o una gonna “vecchi”, sarà inesorabilmente snobbata dai modaioli (i più) quando non presa in giro ed emarginata.

La grande differenza rispetto a quanto abbiamo detto del bello è che la moda è essenzialmente effimera. Il bello di per sé è eterno, cioè vale sempre, risulta sempre apprezzabile, comprensibile a tutti, al di sopra del tempo e dello spazio. Oggi ci stupiamo di fronte a sculture, pitture, musiche di 500 anni fa. Il bello supera i confini della storia. La moda no, perché è parte del sistema economico, è strumento di potere e fonte di enormi guadagni in quanto fenomeno di massa mutevole.

Lo slogan che sta dietro alle mode e che permette il continuo cambiamento del gusto a fini commerciali è: ’il bello è ciò che piace’. Pochi sono i luoghi comuni più diffusi e sciocchi di questo. E’ tutto da vedere che sia bello ciò che piace. A causa delle mode, ad esempio, possono piacere cose di pessimo gusto. E, al contrario, a molti possono non piacere cose bellissime. La mancanza di cultura, insieme al bombardamento dei modelli delle mode provoca danni molto gravi nel cervello e nella sensibilità delle persone. Meno cultura c’è in una persona, più essa è esposta al virus del “bello è ciò che piace” e qualcun altro, ben al di sopra di lui, gli farà piacere cose nuove ogni due anni. Ne programmerà a tavolino i gusti e le spese. Apprezzare il bello non è sempre così facile ed istantaneo. Ci vuole un minimo di sensibilità, fornita per lo più dalla cultura. Non dico che non ci possano essere persone di cultura medio-bassa che apprezzino l’arte vera e propria, ma la probabilità che questa condizione di ignoranza sia terreno fertile per il seme delle mode è molto più elevata. Ecco perché l’apparato economico e politico (che del primo si nutre ed è servo) non ha il benché minimo interesse a promuovere la vera cultura, quella che rende l’intelletto più critico ed autonomo.

La cultura si oppone alla massificazione, perché quest’ultima è opera di un lavaggio del cervello generale, mentre la cultura è promozione delle capacità e delle caratteristiche dell’individuo. Fare cultura, insegnare al meglio, aiutare i ragazzi a formarsi una coscienza critica devono essere gli obbiettivi della scuola[1]. Il mezzo sono le materie. Svolgerle bene, far comprendere ai ragazzi il loro valore come strumento di analisi del mondo, anche quelle che meno sembrano adatte a questo scopo, significa vincere battaglie importanti e riacquistare militanti alla causa del Bello contro ogni sua mistificazione.




[1] La scuola che, anche se mal ridotta, continua a far paura. La cosiddetta riforma della Gelmini ha inferto un ulteriore durissimo colpo alla cultura, eliminando di fatto nel biennio delle scuole superiori la geografia, il diritto, restringendo il campo della storia dell’arte, annientando il programma di storia e geografia nelle elementari (opera già iniziata dalla sua precedente degna collega Moratti)