mercoledì 10 settembre 2014

Il Bello nell’arte – parte quinta


Il Bello nell’arte – parte quinta

La decadenza del Bello

La società capitalista ha come valore supremo l’utile individuale in termini di denaro e di capacità di consumo. Questo porta all’abbandono di molti altri valori, come abbiamo già visto, di tipo umano e sociale. Ma anche di altro genere. Ad esempio di tipo estetico. Il progresso industriale, lo sviluppo economico sono stati fin dall’origine in antitesi con le esigenze estetiche di valorizzazione, promozione o quantomeno preservazione del bello. Perché il bello non è “utile” nel senso capitalistico del termine. Il bello comporta cultura, sforzo, attenzione, educazione, studio, etc. Tutte cose che si oppongono alla massificazione e al lavaggio programmato del cervello. Le caratteristiche umane che necessitano per la percezione del bello sono le stesse che lo rendono resistente alla massificazione: intelligenza, cultura, sensibilità, sapienza. A maggior ragione, la produzione artistica è possibile solo al di fuori della massa: l’artista è per antonomasia colui che esprime se stesso in modo originale e duraturo.
La ricerca e la preservazione del bello è qualcosa che va contro agli interessi dell’accumulo indefinito, in cui  il guadagno sta al primo posto. Le mostruosità urbanistiche ed architettoniche che hanno devastato troppo spesso il nostro paesaggio e ferito le nostre città rappresentano un tipico esempio di quanto si sta qui dicendo. Inquinamento e squilibrii ecologici sono frutto di una mentalità tutta protesa al guadagno illimitato da parte di chi detiene il potere, economico o politico che sia, senza alcun ostacolo. Belle architetture, belle periferie, bei luoghi di lavoro sono considerati ideali utopistici che solo incompetenti in economia possono elaborare. Si fa di tutto perciò per convincere che in realtà ciò che appare brutto sia quantomeno utile per il raggiungimento di un bene superiore, più o meno vicino, più o meno a portata di mano. “Alcune delle più disgustose qualità dell'uomo” sono state “elevate al rango di virtù supreme”[1] e moltissimi si sono convinti che il brutto e tutto ciò che lo accompagna sia quantomeno un inevitabile stadio dello sviluppo della civiltà e della cultura.
Il bello è stato oggetto di una enorme mistificazione. E’ stato scambiato con ciò che gli assomiglia, ma che gli sta agli antipodi: il volgare. Il volgare è di facile somministrazione da parte di chi programma la massificazione dei gusti e di facile accettazione da parte di chi ne è destinatario. Il volgare appaga gli appetiti più bassi e fornisce un piacere immediato, semplice, ovvio, che può facilmente essere scambiato per il piacere del Bello. La televisione ed i media in genere, strumenti per eccellenza del consumismo più bieco, hanno contribuito in maniera determinante alla distruzione della sensibilità al bello e alla incapacità a riconoscerlo.
La perdita dell’idea di Bello è concomitante all’individualismo etico ed economico che fa da ideale supremo della nostra società capitalista. Ciò che desidero, ciò che voglio, per il solo fatto di essere oggetto del mio desiderio, è bello. Come il fare ciò che si vuole, derivante dalla convinzione che ciò che penso e voglio sia un sacrosanto diritto, porta all’abbandono di un serio atteggiamento critico e di confronto con gli altri, così l’idea del bello decade a “gusto” dell’individualità più povera.
Questo atteggiamento individualista preclude la strada alla percezione del Bello e la apre all’invasione del volgare. Perché l’individualista ha un bel dire che l’individuo può pensare ed apprezzare ciò che vuole…chi gli fornisce le idee, le parole e l’oggetto del suo desiderio, rinchiuso com’è egli nel suo ristretto mondo mediatico fatto di TV, videogiochi ed un per lo più errato uso della rete web? Dove può trovare gli strumenti culturali per distinguere ciò che vale, ciò che conta da ciò che semplicemente illude, appare, inganna? Una tale perdita di intelligenza è qualcosa di terribile, irreparabile, che ricorda le parole degli antichi saggi: “la disattenzione è il sentiero della morte; gli attenti non muoiono, i disattenti sono già come morti[2]. Le proprie idee, i propri pensieri, i propri “gusti” sono davvero frutto della nostra ricerca e quindi qualcosa di proprio solo se sono costantemente confrontate con quelle di altri, dalla cui esperienza possiamo trarre qualcosa di diverso dal tentativo di plagio tipico del mondo consumistico. Altre persone che hanno ragionato, ricercato, sofferto, intensamente vissuto… ecco il valore della cultura, della lettura, della scuola. Inserire il ragazzo in quella vivificante corrente umana di cui siamo eredi e che è fatta delle preziosissime riflessioni, contributi, indicazioni etiche ed esistenziali che ci hanno lasciato in eredità. Questa è la cultura.



[1] J.M.Keynes,in: P.A.Samuelson, Economia, Zanichelli, Bologna 1987
[2] Dhammapada 21. L'attenzione è una virtù dell'intelletto. Necessita della tutela di cui ha bisogno l'intelletto nelle sue normali funzioni di apprendimento (riposo, disciplina, metodo...). soprattutto capacità di concentrazione che, guarda caso, è ciò che manca primariamente al giorno d’oggi, particolarmente nei giovani. L'attenzione è simile all'osservazione e all'ascolto. Serve a discriminare il vero dal falso, l'illusorio dal reale, a far svanire le nebbie che sono i noi. Fa riconoscere i desideri profondi e smaschera quelli indotti da paure o semplicemente dagli altri. L'attenzione fornisce una libertà particolare, una specie di sovranità sulle cose e sugli eventi. Sfida i luoghi comuni e supera i pregiudizi. Non permette che ci si identifichi in stereotipi. La persona attenta, perciò, sa ascoltare, comprendere, apprezzare cose diverse: ascolta Bach ma anche i Beatles, apprezza il pesto e le minestre vietnamite, stupisce di fronte a Schiele e a Michelangelo.

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